A ventidue ore meno qualche minuto Fabrizio di Torralba giungeva al
bastione di Porta di Castro. Questa porta secentesca a bugna, d’una bella tinta
dorata non esiste più; il bastione c’è ancora, ma sguarnito da un pezzo: esso
circonda il torrione meridionale del Palazzo reale, dominante la porta, e gira
sulla piazza ora detta dell’Indipendenza. Allora si chiamava di santa Teresa,
pel convento dei Teresiani che sorgeva a uno dei lati. Un corpo avanzato,
munito di feritoie, faceva come una trincea a questo lato del bastione, che si
prolungava poi per quanto era lungo il Palazzo reale, e ne sosteneva il
giardino, e svoltava a Porta Nuova, di cui primamente era la difesa.
Fabrizio giunse primo, e
aspettò al canto del corpo avanzato: ma qualche minuto dopo giunse il tenente
di Roccasparta. Si salutarono con un freddo cenno del capo; e ritrattisi più in
fondo, snudarono le armi e si misero in guardia. Allora, due che volevano
sbudellarsi non si perdevano dietro
regole e formule cavalleresche: la cavalleria era in questo, nell’aver coraggio
a battersi lealmente. Aver testimoni non era indispensabile, e tanto meno
medici; i testimoni qualche volta si conducevano. Quando il duello aveva una
certa solennità, era preceduto da un cartello di sfida, redatto secondo le
formule e il cerimoniale dell’epoca: ma quando la sfida correva così, come era
corsa tra Fabrizio e il tenente, non c’era bisogno di nulla.
Il tenente era in
uniforme, aveva in capo la lucerna alta col fregio dorato, ed era armato della
spada d’ordinanza, larga e lunga; Fabrizio toltosi il mantello e il nicchio,
era in giamberga e armato di spadino, che pareva un gingillo al paragone della
spada avversaria: ma il gingillo era una vecchia lama di Toledo di eccellente
tempra.
Il cavaliere di Roccasparta
si mise in guardia con aria spavalda, da uomo avvezzo a quel giuoco, stimando
di mandare dopo due o tre movimenti lo spadino in aria, dare una sculacciata al
temerario giovincello, e mandarlo a casa. Fabrizio era alle sue prime armi.
Scese in guardia, senza
spacconeria, vigilante, cercando di leggere negli occhi e nella mano
dell’avversario le azioni che avrebbe sviluppato. Alle prime mosse Fabrizio
capì che il tenente cercava di disarmarlo, e allora mutò giuoco: s’era fin qui
limitato a seguire l’azione del tenente, per conoscerne la portata; ora passava
alle iniziative, e attaccò con una serie di azioni rapide e travolgenti, che costrinsero
il Roccasparta ad indietreggiare.
Con una fulminea
cavazione, lo spadino s’insinuò e colpì all’omero il tenente.
- È una! – disse
Fabrizio, rimettendosi subito in guardia.
- È nulla! – rispose il
tenente, assalendo con un fendente che avrebbe spaccato in due Fabrizio, se
questi non avesse con un salto di fianco scansato il colpo e nel tempo stesso
affondato una stoccata, che, pur alleviata in qualche modo, colpì al viso. Un
mezzo pollice più in qua sarebbe penetrata nella bocca.
- E due!...
Il tenente abbassò la
spada. Il sangue gli colava copioso dalla faccia e dall’omero.
- Basta! – disse – vi
faccio i miei complimenti.
Fabrizio gli si
avvicinò, gli porse la mano:
- Senza rancore! –
rispose. – E lasciate ora che vi soccorra.
Luigi Natoli: I mille e un duelli del bel Torralba
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Copertina di Niccolò Pizzorno, in cui viene riprodotto il primo duello di Fabrizio di Torralba
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