Allora squillarono più alto le trombe, e
improvvisamente, fra gli applausi della moltitudine, entrò nell’arena il re,
sfolgorante nelle armi, con la visiera alzata, la sciarpa tricolore alla
cintura, la lancia sulla coscia.
Il suo cavallo veniva col passo largo,
battendo le zampe con superbo fragore, facendo ondeggiare la gualdrappa
purpurea, guarnita di ricami d’oro, e squassando la criniera arricciata, e
ornata di nappe di seta.
Il re era bello. La giovinezza e la
maestà si fondevano sul suo volto; l’ardire e il desiderio di gloria brillavano
nei suoi occhi.
Entrando nell’arena, i suoi occhi corsero
alla loggia reale, dove la regina lo seguiva trepidando e commossa di piacere,
di gioia, di orgoglio, di amore.
Preceduto dagli araldi, seguito da scudieri,
Martino cavalcò di trotto per l’arena, percotendo l’arma di messer Sancho de
Lihori, che s’era mostrato il migliore cavaliere, e pareva dovesse essere il
trionfatore del torneo.
Era una distinzione onorifica che il re
concedeva al prode catalano, da lui elevato alla dignità di grande almirante, e
riserbato ad altri e più lucrosi benefizi.
Per tutto il teatro corse un palpito di
trepidazione, quando i due cavalieri, abbassate le lance, corsero l’uno contro
l’altro. L’incontro parve terribile; le lance, arrestatesi violentemente alla
goletta, si spezzarono, senza che nessuno dei due cavalieri avesse dato segno
di vacillare. Essi parvero fusi in un pezzo coi loro cavalli.
Spezzarono così tre lance per uno; ma
alla terza, messer Sancho de Lihori si piegò alquanto indietro sull’arcione,
senza per questo uscire dagli arcioni. Bastava.
Da abile cortigiano, egli smontò dal
cavallo, e inginocchiatosi dinanzi al re, gli porse la sua spada.
Allora da tutta quella folla si levò una
vera tempesta di applausi e di evviva al re.
Quello spettacolo empiva di maraviglia il paggio Esteban;
e la sua attenzione in quel momento era attirata da quello stendardo nero e da
quel palvese lugubre, che finora erano rimasti soli, intatti, tristi, come
fossero stati un segno di morte. Egli e mastro Cecco di Naro,
nell’entusiasmo generale, erano i soli che guardavano quello stendardo, sebbene
l’uno con una intenzione diversa dall’altro. Mastro Cecco era accigliato, e
sotto l’aspetto torbido, nascondeva la sua inquietitudine; Esteban era soltanto
stupito, non sapendo spiegarsi che cosa significasse; ma ecco a un tratto
balzar fuori sull’arena un nuovo cavaliere, e portando alla bocca un corno,
soffiandovi forte, alla maniera antica.
Tutti si voltarono.
Il cavaliere lasciato cadere il corno al
suo fianco, abbassò rapidamente la visiera, e alzò in aria la lancia.
Nere le piume ondeggiavano sul cimiero;
nera la veste, nera una grande sciarpa che gli cingeva i fianchi: la bordatura
e la gualdrappa del suo cavallo erano anch’esse nere. Soltanto sullo scudo aveva
il cuor sanguinante attraversato dalla banda nera.
Lo scudiero che gli portava dietro le
lance di ricambio, era anch’esso vestito di nero.
Un fremito di stupore e quasi di terrore
percorse le logge e le gradinate. Quell’apparizione aveva qualcosa di
fantastico, di misterioso, di superumano.
Esteban rabbrividì: Giaimo aggrottò le
sopracciglia e non trovò la facezia; Tarsia sentì il cuore batterle con
violenza; la Regina Bianca impallidì.
Solo mastro Cecco di Naro mandò un
sospiro di soddisfazione:
- Finalmente!
A quel primo senso di stupore, tenne
dietro quasi subito un movimento di curiosità:
- Chi è? chi è?
Ma non trovarono altra risposta che quella dipinta sotto il palvese: il cavaliere dal cuor sanguinante...
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