martedì 30 aprile 2024

Luigi Natoli e le rivolte in Sicilia: Per otto giorni la città fu sotto il dominio di maestro Giuseppe D'Alesi... Tratto da: Fra Diego La Matina. Romanzo storico siciliano

 
Alla Conceria aspettavano. Quando seppero di che si era discorso, non ci fu più dubbio che qualcuno aveva dovuto far la spia. Comunque non era più il caso di trarsi indietro e di rimandare quel che si era deliberato. I conciapelli erano due maestranze numerose e manesche, anche i calderai stavano sull’attesa, pronti a rovesciarsi sul palazzo senatorio.
- Andate dal Vicerè – consigliò l’Alesi;  – un’ora dopo, se non sarete di ritorno, farò battere i tamburi, e verrò a prendervi al Palazzo reale.
Il Vicerè ricevette i consoli a uno alla volta. Primo entrò l’Errante. Il Vicerè con una precisione di particolari che sbalordì il console dei conciapelle, gli domandò se la sera innanzi non era stato nella tal taverna, a desinare con questo e quello – e li nominò tutti – e non avessero deliberato di sollevare il popolo, e infine non avessero sorteggiato quattro nomi così e così. L’Errante dentro di sè diceva: 
- “Sangue di Dima! Tutto gli hanno raccontato!...”.
Ma ad ogni domanda del Vicerè, rispondeva: 
- Eccellenza, non so niente. – Eccellenza, io non c’ero. – Eccellenza, son tutte fandonie.
Il povero don Pedro de Los Veles, che gli faceva tutte quelle domande con un tono quasi paterno, come se si trattasse di piccole discolerie commesse da un figlio vivace, immaginava che l’Errante vistosi scoperto, si sarebbe gittato ai suoi piedi, a domandar perdono, e a confessare il resto, si trovava disorientato da quelle degenerazioni fatte con una faccia ingenua, maravigliata. 
Dopo un bel po’ d’inutili insistenze disse all’Errante che uscisse, ma non se ne andasse: e fece entrare il Cacciamila.
Domandò le stesse cose. Il console dei calderai alle prime parole si sentì dare un colpo. Quel cane di don Angelo aveva infranto il segreto confessionale: era evidente; ma confermare, significava accusarsi e accusare gli altri. Faccia tosta dunque, e indegnazione. L’indegnazione era vera, ma il movente non era la gravità delle notizie che il Cacciamila diceva calunnie, nient’altro che calunnie: era invece la stizza di don Angelo, di cui il Vicerè non faceva il nome, ma che appariva come il rivelatore di tutto. Ma questa volta le denegazioni del Cacciamila fece perdere un po’ di calma al Vicerè. Come osava negare, se erano verità dette da lui stesso? Voleva aggravare la sua coscienza di cristiano anche con la menzogna! In un giorno sacro alla Beata Vergine? Egli Vicerè, non aveva fatto venire i due consoli, per far loro del male; ma per aprire loro gli occhi, per richiamarli, perché fidava nella fedeltà delle maestranze, e di questa fiducia aveva dato già ampie prove. Negare, dunque, era inutile.
Allora il console dei calderai si smarrì disorientato dai particolari e dalla sicurezza con cui parlava il Vicerè. Non seppe negare: ammise che gli avevano detto anche a lui, che si voleva fare qualche cosa, ma egli non ci aveva creduto; erano fandonie, tanto fandonie che non ci aveva badato più, e per questo aveva negato. Erano storielle propalate per far disarmare le maestranze. Quanto ai nomi dei quattro eletti a capitanare il popolo ammetteva che l’Errante tenesse discorsi curiosi, ma senza intenzione, come ne tenevano tutti. Ma quanto a sè era suddito fedele di sua Maestà Cattolica, e Sua Eccellenza ne avrebbe avuto le prove. Così, negando questo e ammettendo quello, Leonardo Cacciamila confessò.
Il Vicerè allora mandò a chiamare l’Errante: ma questi insospettitosi disse: 
- Le scale le ho salite una volta, e non le salgo più!
E se ne andò, ma ecco irrompere nel piano del Palazzo la folla degli artigiani e della plebe, condotta dal d’Alesi.
L’impazienza e il timore avevano fatto parer più lungo il tempo dell’attesa. Mezzodì era già trascorso da circa tre ore, e i due consoli non ritornavano.
- Che si fa? – disse l’Alesi al Pertuso, che era il capo sorteggiato. 
Questi alzò le spalle. L’Alesi rivolse la domanda agli altri. Qualcuno indovinando gli sguardi del battiloro, suggerì che era bene andare al Palazzo a vedere.
- Andiamo dunque! – esclamò il battiloro; – tre ore prima o dopo fa lo stesso.
In un attimo, una folla immensa si rovesciò sulla strada Nuova, altra ne accorse per curiosità o per intesa, la maggior parte disarmata. Risalì pel Toledo e giunse al Palazzo nel momento in cui ne usciva l’Errante.
- Siamo stati traditi! – gridò: – a quest’ora Leonardo sarà stato strozzato. Io son fuggito!
Allora si levò un grand’urlo. Volevano vendetta: le prime grida risonarono: Fuori il malgoverno! Viva il re! Fuori le gabelle!... All’armi!... all’armi!...
La rivolta incominciava.
La folla ridiscese pel Toledo; al suo passaggio le botteghe che erano ancora aperte si chiudevano in fretta; le porte dei palazzi si sprangavano: dalle finestre si affacciava gente paurosa e sospettosa; dai vicoli scendevano uomini e donne della plebe più povera, coi volti illuminati dalla speranza di far bottino. 
Giuseppe Errante andava alla testa della popolazione accanto a Giuseppe d’Alesi, ma pareva, ora, se non spaventato, certo impensierito del passo dato. L’Alesi gli diceva: 
- Non aver paura! Ci sono io qui per aiutarti!
Fra Diego andava da presso l’Alesi, aspettando il momento opportuno, nel quale si doveva dar l’assalto ai palazzi, per prendere con sè una mano di giovani animosi. Il suo piano era di impadronirsi di don Angelo e Maruzza, portarseli nelle grotte del burrone del fiume Oreto o in quelle alle falde del monte Pellegrino, e tenerveli sequestrati finchè avessero consegnato Alvaro... Il poi non lo sapeva bene neppur lui, certo don Angelo meritava di esser fatto morire a poco a poco e fra Diego non si sarebbe fatto scrupolo di mandarlo all’altro mondo; ma tutto questo dipendeva dall’atteggiamento che avrebbe tenuto don Angelo.
Giunta ai Quattro Canti la fiumana del popolo si diramò; una parte si recò alla Conceria, un’altra corse alla Kalsa, per chiamarvi i pescatori.
Per otto giorni la città fu sotto il dominio di maestro Giuseppe d’Alesi. L’Errante ebbe paura, o non si sentì l’abilità di guidare il popolo insorto, che nel primo disegno preciso, corso all’armeria del Senato e a quella della Dogana vi tolse tutto quello che c’era a casaccio. Chi prendeva un archibugio, chi la fiaschetta della polvere, il sacchetto delle palle, uno s’armava di celata, un altro di corsaletto; questi d’uno spadone, quello di una picca, o d’una balestra senza dardi, o d’un pezzo di lancia. Mastro Giuseppe sopraggiunto, trovò quell’esercito stranamente armato; ma sapeva dove c’erano munizioni da fuoco. Fece battere i tamburi, e trascinò dietro di sè quell’esercito alla Kalsa dove s’impadronì del bastione del Tuono. Lì c’era polvere e palle, e c’erano cannoni. Ma intanto che si dava il sacco alle munizioni, un popolano che era salito sugli spalti, gridò: 
- Il Vicerè fugge!...


Luigi Natoli: Fra Diego La Matina. Romanzo storico siciliano. 
Pagine 536 - Prezzo di copertina € 22,00
L'opera è la trascrizione del romanzo originale senza censure pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1924.
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
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