Sotto la scaletta, una graziosa fanciulla, col capo coperto di uno strano berrettino, attendeva a stemperare dei colori, dentro vasetti, con la sicurezza di chi ha lunga consuetudine.
Lo studio era vasto, un po’ disordinato, come tutti gli studi dei pittori, con le pareti piene di disegni, di schizzi, di bozzetti, quali dipinti, quali a sanguigna, quali segnati col carbone, a grossi tratti, che talvolta si sovrapponevano, s’intersecavano, si confondevano. Attaccati a chiodi, ritti su mensole, biancheggiavano sul fondo grigio delle pareti i gessi grandi e piccoli; calchi e riproduzioni di teste e di statue antiche e del rinascimento; e qua e là armi e pezzi di stoffe e tavolozze imbrattate di colori, uno specchio dalla cornice dorata sopra una mensola dai piedi curvi a grandi volute.
Un tavolo pareva gemesse sotto il peso di cartelle e disegni e stampe; e altre cartelle sopra seggioloni e sgabelli e per terra. In un angolo, il più discreto di ombre e di raccoglimento, ardeva dinanzi a una immagine sacra una lampadina ad olio. Sotto la grande finestra, donde entrava la luce temperata, su uno di quei canapè impagliati, dalla spalliera dipinta, stava seduto un uomo maturo, asciutto di membra, con gli occhi vivacissimi, che tenendo sul ventre una chitarra vi lasciava sbadatamente or sì or no, scorrere leggermente il pollice traendone vibrazioni dolci e quasi sospirose come gemiti: e un altro più vecchietto annusava tabacco, voluttuosamente, socchiudendo gli occhi.
Erano anch’essi due artisti, noti, anzi celebri in Palermo, il primo dei quali, quello che pizzicava la chitarra, doveva salire, qualche secolo dopo, ai fastigi della gloria, si chiamava mastro Giacomo Serpotta, e aveva in quel tempo giocondato più chiese e cappelle dei suoi maravigliosi e insuperabili putti; l’altro era don Antonio Grano, pittore come il Bongiovanni.
- Oggi come oggi – diceva annusando – non ho proprio voglia di tirare una linea. Fa troppo caldo... Me ne andrei a Maredolce o allo scoglio di Mustazzola...
Successe un momento di silenzio. Giacomo Serpotta accennò un arpeggio, poi disse al Grano:
- E il vostro quadrone a che punto è?
- Va innanzi. Fra quindici, mettiamo anche fra venti giorni, potrò consegnarlo... Non sono contento della testa del duca di Savoia...
Nuovamente si fece silenzio, nel quale risonarono gli arpeggi dell’insigne scultore. Poi il Grano si alzò e tolse commiato. Pareva infastidito. La giovanetta seguitava a sciogliere le tinte nei vasetti, provandone qualcuna sopra un pezzo di carta. Giacomo Serpotta la guardava socchiudendo gli occhi, seguendone le graziose movenze.
- Ma sapete – disse – che vo’ modellare la mia statua della Scienza per l’Oratorio di Santa Cita, sulla vostra figliuola?
La fanciulla si voltò arrossendo e sorridendo. Il grande artista in quei tempi aveva incominciato la decorazione dell’Oratorio di Santa Cita, quel meraviglioso saggio della fantasia e dell’arte sua unica e inimitabile. Giacomo Serpotta non aveva ancora sessant’anni, era nel pieno rigoglio dell’arte, e aveva popolato chiese e oratorii di quei suoi putti giocondi e originalissimi, e di quelle sue figure simboliche, eleganti e piene di grazia, delle quali egli stesso non conosceva forse l’altissimo valore. Figlio dell’arte – il padre era stato scultore o marmoraro, come si diceva – dopo aver prodotto qualche ardita opera di getto, e fornito disegni ad altri scultori – s’era gittato alla decorazione con lo stucco, trasportando quest’arte, fino allora umile, ad altezza non mai raggiunta, nè prima, nè dopo di lui. Le movenze della fanciulla, graziose e nel tempo stesso composte e non senza una certa nobiltà, gli suggerivano forse qualche motivo per la sua statua.
Giacomo Serpotta, questo umile figlio dell’arte, e pur così alto intenditore dell’eleganza e della grazia femminea, aveva una speciale predilezione per la fanciulla, che aveva, si può dire, visto nascere. Adesso, nel vederla così seria, e così intenta, e forse pensosa, aveva repentinamente veduto in lei la forma di un suo oscuro concetto, e se ne era dilettato.
- Come mai – disse il Bongiovanni, senza staccar gli occhi dalla tela – come mai non v’hanno affidato la direzione degli apparati, e una cosa che ancora non mi persuade, un arco di trionfo!...
Giacomo Serpotta alzò le spalle con noncuranza.
- C’è tanti scultori e architetti; – disse – volete che pensino a uno stuccatore?
Allora Pellegra si voltò vivamente, e, venendo dinanzi al grande artista, esclamò:
- E dove lo trovano in tutta la Sicilia uno scultore che vi stia a paro?
Giacomo sorrise.
- Oh! c’è il Vitagliano...
- Ah! sì, il Vitagliano, che si fa dare da voi i disegni delle sue statue... e qualche volta anche i modelli!... Ah! ah!...
(Nella foto: l'oratorio di Santa Cita in Palermo)
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