venerdì 29 aprile 2022

Luigi Natoli: Andrea Lo Bianco incontra I Beati Paoli... Tratto dall'omonimo romanzo.

Due uomini intabarrati in modo irriconoscibile uscivano dalla Conce­ria e, attraversata la strada Nuova, si cacciavano nella strada dei Candelai, non senza prima essersi guardati in­torno, con l’aria di persone che non amano esser seguite. Quando parve loro di essersi allontanati alquanto, co­sì da non poter essere più veduti dagli insoliti frequentatori della bella stra­da, lasciarono l’andatura di gente che va pe’ fatti suoi, e si affrettarono come chi teme di giungere tardi.
Piegarono per la piazza del Monte di Pietà, e tiraron via per la strada Lettighe, fin presso la chiesa dei “Canceddi” ossia dei vetturali, volgarmente intesa col nome di Santa Maruzza: ivi si fermarono. Uno dei due trasse le mani di sotto al man­tello, dicendo:
- Abbiate pazienza: lasciatevi ben­dare.
L’altro non si oppose. Il primo gli legò un fazzoletto sugli occhi e lo pre­se per mano, aggiungendo:
- Venite sicuramente.
Costeggiarono la chiesa, entrarono per un vicolo nero e misterioso, e do­po alcuni passi si fermarono.
- Ci siamo, – disse colui che guidava.
Si avvicinò a una porticina bassa, tarlata, sdrucita, e raschiò con l’un­ghia, leggermente, come un gatto. Dal­l’interno, dopo un breve intervallo, ri­spose un altro raschìo. L’uomo allora modulò un leggero fischio. La porta si aprì silenziosamente; l’uomo prese per mano il bendato, lo trasse a sé nel vano nero, e profondo, dicendo:
- Venite. Badate, c’è un gradino...
La porta si richiuse dietro a loro. 
Percorsero un breve corridoio, in fondo al quale un’altra porticina si aprì con lo stesso mistero. Entrarono in un cortiletto, in mezzo al quale nereggiava nella notte un albero contorto. Il pavimento risonò nella notte sotto i loro passi, come se fosse stato vuoto. 
- Attento, – avvertì il guidatore; – qui si scende.
Discesero infatti alcuni scalini; il bendato sentì che l’aria si faceva umi­da e sapeva di muffa; infatti la scala scendeva per un passaggio scavato nel tufo che grommava qua e là, e ren­deva lubrico il terreno. Una lucernet­ta, posta in una piccola nicchia sca­vata nella parete, spandeva una luce appena sufficiente per lasciar indovi­nare gli scalini. Ai piedi della scala si fermarono, il guidatore disse:
- Aspettate qui un momento. Vi si verrà a prendere.
Lasciò il bendato in una specie di sala, e picchiò cinque colpi a una por­ta. Una voce dall’interno sussurrò delle parole misteriose, che il guidatore con­traccambiò; la porta si aperse ed egli entrò in una stanza illuminata da lan­terne infisse al muro. Alcune voci lo salutarono.
- Buona notte, zi’ Rosario.
Alla luce delle lanterne apparve il volto butterato e gli occhietti vivaci del piccolo bottegaio.
- È qui – disse; – quando vos­signoria vuole...
In fondo alla stanza v’era una spe­cie di altare di pietra, sul quale sorgeva un Cristo in croce, fra due candele accese, e a piè della Croce era aperto un libro. Dinanzi all’altare, c’era un tavolino, al quale sedevano tre uomini mascherati, vestiti di una specie di sacco nero: di qua e di là sopra scran­ne sedevano altri sei uomini, anch’essi insaccati e mascherati. Sotto le ma­schere nere gli occhi brillavano sini­stramente.
Zi’ Rosario s’avvicinò alla parete, cacciò le mani in una nicchia, ne ca­vò un involto, e un istante dopo an­ch’egli vestito del sacco e mascherato non fu più riconoscibile degli altri. Allora quegli che pareva presiedere l’adunanza fece un segno: uno dei sei si alzò e uscì; per rientrare quasi subito, traendo per mano l’uomo bendato.
- Dategli la luce – ordinò il capo. 
La benda fu tolta e apparve il vol­to attonito e commosso di Andrea. Il passaggio repentino dalle tenebre alla luce per un minuto gli tolse la per­cezione esatta dell’ambiente; poi a po­co a poco si assuefece, e nel momento di silenzio che regnò nella stanza guardò con stupore il luogo in cui si trovava, quasi non persuadendosi che nel cuore di Palermo si trovassero di quelle caverne, che, non infrequen­ti nei dintorni della città, il popolo attribuiva ai saraceni. La stanza era scavata nel tufo, con un certo cri­terio d’arte; aveva il tetto a volta, e nelle pareti qualche nicchia. V’erano presso l’altare vestigia d’intonaco, ma l’umidità l’aveva scrostato: si sentiva che quella grotta si trovava nel sottosuolo...

Rifecero la strada senza parlare; Andrea era come sopraffatto da quello le aveva veduto e udito: si domandava per quale ragione quel tribunale misterio­so e terribile si interessasse delle usur­pazioni del duca della Motta; certo non era per vendicar la morte di al­cuno; e allora? e chi erano quegli uo­mini dei quali tutti parlavano, che nessuno conosceva, e che pure incu­tevano tanto terrore nella città e, spesso rendevano titubante e timido il ma­gistrato sul punto di sentenziare?
La setta che in quegli anni diffon­deva in Palermo e anche nel Val di Mazara il terrore dei suoi atti di giu­stizia aveva larghe ramificazioni che erano soltanto note al supremo tribu­nale che la dirigeva; gli affiliati igno­ravano quanti erano; ognuno di essi non conosceva che il compagno dal quale era stato affiliato; e se talvolta era ammesso al cospetto dei capi, v’era condotto con mistero, bendato, e non vedeva dinanzi a sè che uomini mascherati. Ne avveniva che gli affiliati erano sorvegliati dai capi, senza saperlo, e senza potersene guardare; ciò che li rendeva muti, prudenti, fedeli, pronti anche al sacrificio.
Ai poveri, ai deboli la setta si pre­sentava come un formidabile protettore; e ciò le procacciava simpatie e quella inconsapevole e pur potentissi­ma solidarietà, per la quale gli affi­liati non si sentivano mai soli, e po­tevano contare nel soccorso e nella protezione del popolo e della piccola borghesia.
I padroni dello Stato erano i signo­ri e il clero, perchè essi possedevano la ricchezza; tutte le cariche erano in poter loro, gli uffici più delicati non eran concessi che a nobili, i quali naturalmente, per spirito di casta, si aiutavano, si sorreggevano, si proteg­gevano. Qualunque violenza commet­tessero, erano sicuri della impunità; le condanne più gravi si limitavano al­l’esilio o al confine in qualche nobile castello, o in qualche castello reale, do­ve erano alloggiati e serviti con agio, e godevano della più ampia li­bertà. Ma il popolo e la piccola bor­ghesia non avevano che la miseria e la servitù, e la legge sfolgorava i più fe­roci castighi che l’insano rigore di quei tempi le poneva in mano, non soltan­to per punire colpe reali, ma anche per lasciar compiere violenze e ingiustizie.
I Beati Paoli apparivano ed erano nel fatto come una forza di reazio­ne, moderatrice: essi insorgevano per difendere, proteggere i deboli, impedire le ingiustizie e le violenze: era­no uno stato dentro lo stato, formi­dabile perchè occulto; terribile perchè giudicava senza appello, puniva senza pietà, colpiva senza fallire. E nessuno conosceva i suoi giudici e gli esecu­tori di giustizia. Essi parevano appar­tenere al mito più che alla realtà. Era­n dappertutto, udivan tutto, sapeva­n tutto; e nessuno sapeva dove fos­sero, dove s’adunassero. L’esercizio del loro ufficio di tutori e di vendicatori si palesava per mezzo di moniti, di let­tere, che capitavano misteriosamente.
L’uomo al quale giungevano, sapeva di aver sospesa sul capo una condan­na di morte.
Come erano sorti?... donde?
Mistero. Avevano avuto degli ante­nati: quei terribili “vendicosi”, che ai tempi di Arrigo VI e di Federico II erano diffusi pel regno: e il cui capo era un signore, Adinolfo di Pontecorvo; i proseliti migliaia; il loro istituto vendicar le violenze patite dai deboli. 
Ma nessuno seppe mai chi fosse il capo dei Beati Paoli; né potè mai dire se appartenesse a questa o a quell’altra classe o casta. Nessun processo potè mai più di un quarto di secolo diradare il mistero. Qualche volta un uomo saliva sul patibolo, accusato di delitto di sangue; si diceva, si riteneva per fermo che fosse un affi­liato; ma nè la tortura nè la vista del patibolo poterono strappargli il se­greto. La giustizia troncava qualche ramo; l’albero rimaneva e gettava nuo­vi germogli.
Nel 1713 la setta era nel suo pie­no vigore; pareva infervorata di quella che pareva opera di giustizia, e la città ne era come sopraffatta. Il go­verno viceregio, la corte capitaniale, il tribunale del Sant’Offizio si erano confederati, mettendo da parte i litigi consueti per preminenze e prerogative, per estirpare la setta; ma invano. I più arditi segugi nel punto in cui pa­reva loro di esser sulle tracce, ca­devano misteriosamente.
Questa era la società segreta nella quale Andrea s’era imbattuto; questo il tribunale cui chiedeva vendetta: e nella sua immaginazione, attraverso la maschera ingrandiva quei personaggi, dando loro sembianze quasi straordina­rie. Se egli avesse potuto, nascosto, vedere in volto quegli uomini terribili, che, lui uscito, si tolsero le maschere, si sarebbe stupito nel vedere delle fi­sionomie insignificanti e comuni.
L’uomo, che seduto a canto del ca­po, aveva rivolto qualche domanda ad Andrea era don Girolamo Ammirata.


Luigi Natoli: I Beati Paoli. Grande romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo dei primi del '700. Dopo 91 anni ritorna l'opera più famosa dell'illustre autore nell'ultima versione originale da lui pubblicata (1931).
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