Il discorso cadde sugli archi di trionfo che per commissione del Senato e delle varie corporazioni e “nazioni” si dovevano costruire e decorare per l’entrata ufficiale di Vittorio Amedeo II, che sarebbe avvenuta negli ultimi dell’anno.
Si sapeva che il duca di Savoia era partito dai suoi stati e veleggiava per la Sicilia, dove sarebbe arrivato in quei giorni per prender possesso del regno, intanto che si sarebbero fatti i preparativi per la decorazione. La deputazione del regno, il Senato, le corporazioni, le “nazioni” – come si chiamavano allora le colonie di paesi d’oltre il regno – si erano dunque poste all’opera, perchè le feste per la coronazione del Re fossero quanto mai magnifiche e solenni.
Dalla venuta di Carlo V nel 1535 fino allora nessuno dei Re che si erano succeduti avevano mai posto piede nell’isola; nessuno era stato coronato nell’antico e nobile duomo, con la corona di Ruggero e Federico II: il regno s’era sentito quasi mortificato dalla trascuratezza dei suoi monarchi lontani, ai quali pur mandava larghi e generosi donativi.
Ecco invece che Vittorio Amedeo rinnovava gli antichi fasti. Egli veniva a farsi coronare dal metropolitano di Palermo, nell’antica sede della monarchia più gloriosa dell’Italia, veniva a ridar lustro all’antica reggia dove Federico II aveva accolto il fiore di ogni gentilezza e donde aveva quasi imposto la sua volontà all’Europa. Ce n’era abbastanza per destare palpiti e speranze in tutti, ed eccitare l’orgoglio cittadino dell’antica capitale.
Tutta Palermo era in festa! Tutta Palermo si apparecchiava.
Un geniale e gentil pensiero aveva spiritualizzato un atto di cortigianeria; il Senato infatti aveva pensato di ornare il Duomo per la cerimonia dell’incoronazione di una serie di grandi quadri d’occasione, a tempera, rappresentanti i fasti della vita e del regno di Vittorio Amedeo; affidandoli ai pittori più noti che allora fossero in Palermo. Il Bongiovanni, il fiammingo Borremans, don Antonio Grano erano fra questi.
Il discorso cadde sugli avvenimenti politici di quegli anni. Ricordavano la lunga serie di supplizi seguiti dopo il 1708: frate Ignazio Vulture che sognava la repubblica, don Prospero Fialdi, che voleva cacciati via Francesi e Irlandesi; don Antonino Guerreri, giudice del Concistoro, perchè aveva dato ricetto a un presunto ribelle; l’eremita di S. Matteo che parteggiava; nelle sue prediche, per gl’imperiali, e il pittore Ganguzzo coi figli e col suocero, gente valorosa, macchinatori di congiure; e mastro Agatino Quaranta, console dei terrori; ed altri ed altri quali impiccati, quali decapitati e i cadaveri esposti a ludibrio, con cartelli infamanti. Erano le ultime vittime che il moribondo dominio spagnolo sacrificava a se stesso.
Quella mattina 10 ottobre erano arrivati i trenta vascelli inglesi e genovesi che conducevano Vittorio Amedeo, la sua Corte, il suo seguito nella capitale del regno. Approdati dapprima all’Arenella, e ricevuta la visita dell’arcivescovo, e poco dopo quella di alcuni signori e de’ due deputati del Senato, le navi verso sera avevano gittato l’ancora nel Molo grande, e il re aveva manifestato la sua volontà di sbarcare il giorno dopo verso ventitrè ore d’Italia.
Tutta la giornata un esercito di artigiani aveva febbrilmente atteso ad addobbare il ponte di sbarco alla Cala, e i quattro archi nella piazza Villena; ed ora seguitava al lume di torce e di fiaccole a terminare il lavoro prima di giorno. Un via vai di carri e di baroccini, un risonar di martellate, e grida e rumori confusi, che la notte aumentava, si diffondeva pel Cassaro, intensificandosi ai Quattro Canti, echeggiando su tutta la città, chiamando i curiosi.
L’idea di avere un re proprio aveva infuso nelle mani l’entusiasmo delle anime. Nel fervore di quegli artigiani, nella curiosità stessa dei cittadini, che invece di andare a dormire se ne stavano ai Quattro Canti o alla Cala, a veder lavorare, quasi incorando con la loro presenza a far presto e bene, c’era del patriottismo. Coloro che dormivano quella notte avevano il sonno lieve e dolcemente ansioso.
Non eran quelli i preparativi del solenne ingresso e per la coronazione, che richiedevano un tempo più lungo e un maggior lavoro; tuttavia bastavano a mettere in brio e in moto la città.
L’attenzione era così attirata verso i due centri di maggior lavoro, e la frequenza delle persone, anche in quell’ora insolita, era tale che nessuno poteva maravigliarsi di incontrare altra gente per le strade...
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