Rifecero la strada senza parlare; Andrea era come sopraffatto da quello le aveva veduto e udito: si domandava per quale ragione quel tribunale misterioso e terribile si interessasse delle usurpazioni del duca della Motta; certo non era per vendicar la morte di alcuno; e allora? e chi erano quegli uomini dei quali tutti parlavano, che nessuno conosceva, e che pure incutevano tanto terrore nella città e, spesso rendevano titubante e timido il magistrato sul punto di sentenziare?
La setta che in quegli anni diffondeva in Palermo e anche nel Val di Mazara il terrore dei suoi atti di giustizia aveva larghe ramificazioni che erano soltanto note al supremo tribunale che la dirigeva; gli affiliati ignoravano quanti erano; ognuno di essi non conosceva che il compagno dal quale era stato affiliato; e se talvolta era ammesso al cospetto dei capi, v’era condotto con mistero, bendato, e non vedeva dinanzi a sè che uomini mascherati. Ne avveniva che gli affiliati erano sorvegliati dai capi, senza saperlo, e senza potersene guardare; ciò che li rendeva muti, prudenti, fedeli, pronti anche al sacrificio.
Ai poveri, ai deboli la setta si presentava come un formidabile protettore; e ciò le procacciava simpatie e quella inconsapevole e pur potentissima solidarietà, per la quale gli affiliati non si sentivano mai soli, e potevano contare nel soccorso e nella protezione del popolo e della piccola borghesia.
I padroni dello Stato erano i signori e il clero, perchè essi possedevano la ricchezza; tutte le cariche erano in poter loro, gli uffici più delicati non eran concessi che a nobili, i quali naturalmente, per spirito di casta, si aiutavano, si sorreggevano, si proteggevano. Qualunque violenza commettessero, erano sicuri della impunità; le condanne più gravi si limitavano all’esilio o al confine in qualche nobile castello, o in qualche castello reale, dove erano alloggiati e serviti con agio, e godevano della più ampia libertà. Ma il popolo e la piccola borghesia non avevano che la miseria e la servitù, e la legge sfolgorava i più feroci castighi che l’insano rigore di quei tempi le poneva in mano, non soltanto per punire colpe reali, ma anche per lasciar compiere violenze e ingiustizie.
I Beati Paoli apparivano ed erano nel fatto come una forza di reazione, moderatrice: essi insorgevano per difendere, proteggere i deboli, impedire le ingiustizie e le violenze: erano uno stato dentro lo stato, formidabile perchè occulto; terribile perchè giudicava senza appello, puniva senza pietà, colpiva senza fallire. E nessuno conosceva i suoi giudici e gli esecutori di giustizia. Essi parevano appartenere al mito più che alla realtà. Eran dappertutto, udivan tutto, sapevan tutto; e nessuno sapeva dove fossero, dove s’adunassero. L’esercizio del loro ufficio di tutori e di vendicatori si palesava per mezzo di moniti, di lettere, che capitavano misteriosamente.
L’uomo al quale giungevano, sapeva di aver sospesa sul capo una condanna di morte.
Come erano sorti?... donde?
Mistero. Avevano avuto degli antenati: quei terribili “vendicosi”, che ai tempi di Arrigo VI e di Federico II erano diffusi pel regno: e il cui capo era un signore, Adinolfo di Pontecorvo; i proseliti migliaia; il loro istituto vendicar le violenze patite dai deboli.
Ma nessuno seppe mai chi fosse il capo dei Beati Paoli; né potè mai dire se appartenesse a questa o a quell’altra classe o casta. Nessun processo potè mai più di un quarto di secolo diradare il mistero. Qualche volta un uomo saliva sul patibolo, accusato di delitto di sangue; si diceva, si riteneva per fermo che fosse un affiliato; ma nè la tortura nè la vista del patibolo poterono strappargli il segreto. La giustizia troncava qualche ramo; l’albero rimaneva e gettava nuovi germogli.
Nel 1713 la setta era nel suo pieno vigore; pareva infervorata di quella che pareva opera di giustizia, e la città ne era come sopraffatta. Il governo viceregio, la corte capitaniale, il tribunale del Sant’Offizio si erano confederati, mettendo da parte i litigi consueti per preminenze e prerogative, per estirpare la setta; ma invano. I più arditi segugi nel punto in cui pareva loro di esser sulle tracce, cadevano misteriosamente.
Questa era la società segreta nella quale Andrea s’era imbattuto; questo il tribunale cui chiedeva vendetta: e nella sua immaginazione, attraverso la maschera ingrandiva quei personaggi, dando loro sembianze quasi straordinarie. Se egli avesse potuto, nascosto, vedere in volto quegli uomini terribili, che, lui uscito, si tolsero le maschere, si sarebbe stupito nel vedere delle fisionomie insignificanti e comuni.
L’uomo, che seduto a canto del capo, aveva rivolto qualche domanda ad Andrea era don Girolamo Ammirata.
La setta che in quegli anni diffondeva in Palermo e anche nel Val di Mazara il terrore dei suoi atti di giustizia aveva larghe ramificazioni che erano soltanto note al supremo tribunale che la dirigeva; gli affiliati ignoravano quanti erano; ognuno di essi non conosceva che il compagno dal quale era stato affiliato; e se talvolta era ammesso al cospetto dei capi, v’era condotto con mistero, bendato, e non vedeva dinanzi a sè che uomini mascherati. Ne avveniva che gli affiliati erano sorvegliati dai capi, senza saperlo, e senza potersene guardare; ciò che li rendeva muti, prudenti, fedeli, pronti anche al sacrificio.
Ai poveri, ai deboli la setta si presentava come un formidabile protettore; e ciò le procacciava simpatie e quella inconsapevole e pur potentissima solidarietà, per la quale gli affiliati non si sentivano mai soli, e potevano contare nel soccorso e nella protezione del popolo e della piccola borghesia.
I padroni dello Stato erano i signori e il clero, perchè essi possedevano la ricchezza; tutte le cariche erano in poter loro, gli uffici più delicati non eran concessi che a nobili, i quali naturalmente, per spirito di casta, si aiutavano, si sorreggevano, si proteggevano. Qualunque violenza commettessero, erano sicuri della impunità; le condanne più gravi si limitavano all’esilio o al confine in qualche nobile castello, o in qualche castello reale, dove erano alloggiati e serviti con agio, e godevano della più ampia libertà. Ma il popolo e la piccola borghesia non avevano che la miseria e la servitù, e la legge sfolgorava i più feroci castighi che l’insano rigore di quei tempi le poneva in mano, non soltanto per punire colpe reali, ma anche per lasciar compiere violenze e ingiustizie.
I Beati Paoli apparivano ed erano nel fatto come una forza di reazione, moderatrice: essi insorgevano per difendere, proteggere i deboli, impedire le ingiustizie e le violenze: erano uno stato dentro lo stato, formidabile perchè occulto; terribile perchè giudicava senza appello, puniva senza pietà, colpiva senza fallire. E nessuno conosceva i suoi giudici e gli esecutori di giustizia. Essi parevano appartenere al mito più che alla realtà. Eran dappertutto, udivan tutto, sapevan tutto; e nessuno sapeva dove fossero, dove s’adunassero. L’esercizio del loro ufficio di tutori e di vendicatori si palesava per mezzo di moniti, di lettere, che capitavano misteriosamente.
L’uomo al quale giungevano, sapeva di aver sospesa sul capo una condanna di morte.
Come erano sorti?... donde?
Mistero. Avevano avuto degli antenati: quei terribili “vendicosi”, che ai tempi di Arrigo VI e di Federico II erano diffusi pel regno: e il cui capo era un signore, Adinolfo di Pontecorvo; i proseliti migliaia; il loro istituto vendicar le violenze patite dai deboli.
Ma nessuno seppe mai chi fosse il capo dei Beati Paoli; né potè mai dire se appartenesse a questa o a quell’altra classe o casta. Nessun processo potè mai più di un quarto di secolo diradare il mistero. Qualche volta un uomo saliva sul patibolo, accusato di delitto di sangue; si diceva, si riteneva per fermo che fosse un affiliato; ma nè la tortura nè la vista del patibolo poterono strappargli il segreto. La giustizia troncava qualche ramo; l’albero rimaneva e gettava nuovi germogli.
Nel 1713 la setta era nel suo pieno vigore; pareva infervorata di quella che pareva opera di giustizia, e la città ne era come sopraffatta. Il governo viceregio, la corte capitaniale, il tribunale del Sant’Offizio si erano confederati, mettendo da parte i litigi consueti per preminenze e prerogative, per estirpare la setta; ma invano. I più arditi segugi nel punto in cui pareva loro di esser sulle tracce, cadevano misteriosamente.
Questa era la società segreta nella quale Andrea s’era imbattuto; questo il tribunale cui chiedeva vendetta: e nella sua immaginazione, attraverso la maschera ingrandiva quei personaggi, dando loro sembianze quasi straordinarie. Se egli avesse potuto, nascosto, vedere in volto quegli uomini terribili, che, lui uscito, si tolsero le maschere, si sarebbe stupito nel vedere delle fisionomie insignificanti e comuni.
L’uomo, che seduto a canto del capo, aveva rivolto qualche domanda ad Andrea era don Girolamo Ammirata.
Luigi Natoli: I Beati Paoli. Grande romanzo storico siciliano pubblicato nell'ultima versione corretta dall'illustre autore (1931)
Pagine 938 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
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