La strada di Mezzomonreale che per oltre tre miglia corre diritta
dal piede del colle Caputo alla Porta Nuova di Palermo, era nel secolo
XVIII per un buon tratto, dalla porta fino al Convento dei Cappuccini, fiancheggiata di grandi e ombrosi alberi, fattivi piantare da Marcantonio Colonna durante il suo viceregno. Alcune fontane, delle
quali ancora ne avanza qualcuna, ornavano il largo viale, e dei sedili
offrivano comodi riposi all’ombra. Di qua e di là, oltre i muri che
fiancheggiavano la strada, oltre le case rare, si stendevano orti e prati
e agrumeti, sorgevano ville magnifiche, qualche chiesa lanciava sopra
il verde, il suo campanile squillante, il vetusto e grigio palazzo della
Cuba torreggiava, triste e solitario superstite di una grandezza scomparsa, ridotto a caserma di cavalleria.
Questo stradale era in quei tempi una delle passeggiate favorite
dai cittadini di Palermo, specie nelle ore vespertine e nelle prime ore
notturne, nelle quali le ombre avvolgevano di mistero i convegni degli
innamorati. Nel pomeriggio la strada era percorsa da portantine e
carrozze rilucenti di dorature, sormontate da grandi pennacchi svolazzanti, e da una parte e dall’altra da domestici borghesi e popolani,
che non potendo concedersi il lusso di esser trasportati dai piedi altrui, si compiacevano di riconoscere e ammirare gli equipaggi, che
fragorosamente andavano e venivano fra porta Nuova e la fontana
dei Cappuccini. I giovani signori preferivano andare a cavallo, caracollando fra le carrozze e le portantine, per far mostra della loro abilità e sfoggiare la ricchezza del loro abbigliamento.
Le carrozze di quel tempo erano ben diverse da quelle odierne
così svelte e leggere; eran pesanti macchine, sorrette da cinghie di
cuoio sopra ruote tozze e massiccie; veri monumenti ambulanti, avevan nondimeno qualcosa di magnifico e di imponente. Eran tirate
da quattro, sei, talvolta anche otto cavalli, tutti d’un manto, attaccati
a due a due, con bardature e finimenti ricchissimi, con pennacchi dai
vivaci colori sulla testa. Le qualità e i mezzi del signore si rivelavano
nella ricchezza delle scolture, nella bontà delle decorazioni pittoresche, spesso affidate ad artisti di grido, nella profusione dell’oro. Uno,
quattro o cinque pennacchi sormontavano la cupola; tende di seta
con frange d’oro pendevano nell’interno, tappezzato di cuoio o di
velluto. Il cocchiere troneggiava e veramente la cassetta su cui sedeva, coperta di una gualdrappa di velluto, con le armi della casa d’argento
e d’oro massiccio cesellato, pareva un trono, o un altare; ed egli un
nume, nella sua ricca livrea, e nel gesto solenne col quale teneva le
redini. Due o tre lacchè in livree non meno ricche, stavano ritti dietro
la cupola della carrozza, tenendosi a delle maniglie; e dinanzi ai cavalli, e ai fianchi della carrozza, andavano i volanti trotterellando, in
pugno le torce, che all’ave avrebbero acceso per rischiar la strada al
padrone, costretti a gareggiar col passo dei cavalli, a scansar cento
volte l’urto di altri volanti e di altre carrozze, o le zampe dei cavalli
caracollanti.
Nè meno ricche eran le portantine, graziosi ninnoli al paragone
delle carrozze, di seta, d’oro, di pitture, trasportate da servi in magnifiche livree, circondate anch’esse da volanti. Fra esse se ne vedeva
qualcuna più semplice, anzi sobria; o era da nolo, o apparteneva a
qualche medico o prete.
Una passeggiata in quel principio di secolo aveva dunque un
aspetto di magnificenza e di ricchezza, e una varietà di colori e di luccichii, di cui difficilmente oggi possiamo farci un’idea.
In mezzo a questa magnificenza s’insinuava talvolta qualche carretto, o qualche “retina” di muli carichi o di sacchi di frumento o di
otri, che attardatisi per la strada, giungevano in Palermo sul tramonto;
e si fermavano dinanzi una taverna. I lacchè, insolenti e soverchiatori,
ributtavano da una parte carri e muli, quando non facevano in tempo
a lasciar libero il passo; nè si davan pensiero se qualche sacco andava
per terra, e il grano si spandeva.
Appunto nell’ora del passeggio, e quando più risplendeva la
pompa lussureggiante dei signori, un pomeriggio di settembre del
1713 scendeva dalla strada di Monreale verso Palermo un giovane
cavaliere, il cui assetto stonava maledettamente con quell’apparato
di ricchezza, e più con l’espressione del volto.
Entrando in mezzo al lusso degli equidaggi, tra i bei cavalli caracollanti, cavalcati da giovani signori azzimati, profumati, inappuntabili, il giovane cavaliere non sembrò vergognarsi, ma tentando coi
lunghi sproni e con certi strettoni delle redini di infondere un po’ di
vivacità alla sua rozza stanca, infangata, teneva il capo eretto con aria
spavalda e quasi di sfida, senza curarsi degli sguardi curiosi e beffardi
e dei motteggi salati, coi quali era accolto il suo passaggio.
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