lunedì 21 giugno 2021

Luigi Natoli: Giovannello Chiaramonte. Tratto da: Il Paggio della regina Bianca.

La piazza Marina, così detta perché da prima era seno di mare, da più d’un secolo era prosciugata; essa era chiusa dalla parte di mezzogiorno dalle mura della Kalsa, qua e là abbattute, e dalla parte di levante da uno sprone di terra, (ancor visibile nello stereobate su cui sorgono l’Hotel de France, e il palazzo dell’Intendenza,) il quale finiva sulla Cala, con una chiesa, sotto la quale si agganciava la catena da chiudere il porto; dal che la chiesa prese il nome di S. Maria della Catena.
Questo sprone, nei tempi antichissimi formava un molo naturale, difendeva e proteggeva, il porto profondo, a cui la città doveva il suo nome greco: Panormo (tutto porto). Dalla parte esterna, sul mare, al limite del quartiere arabo della Kalsa, e cioè dove ora corre la via Butera, su questo sprone era un borgo di Greci, con la loro chiesa di S. Nicolò. Da loro prese il nome la porta, che, rifatta, serba fino ad oggi il nome di Porta dei Greci.
La piazza Marina era dunque compresa fra questo sprone più elevato, la parte alta della Kalsa, e giungeva fin presso allo sbocco della via del Parlamento, comprendendo la via Bottai e l’area del palazzo delle Finanze; il porto, dal lato ove è la chiesa di S. Sebastiano, penetrava ancora un po’ di più, e giungeva fino all’Arsenale, il Tercianatus dei vecchi documenti, che ha lasciato il nome alla piazzetta di Terzana.
Sullo sprone non v’erano edifici notevoli, salvo che lo Steri, l’antica e nobile dimora dei Chiaramonte, accanto a cui la casa men bella dei conti di Cammarata e la chiesa di S. Maria della Catena.
Dietro lo Steri sorgevano la chiesetta di S. Antonio, ancora esistente, e la chiesa di S. Nicolò, or da un secolo circa distrutta. 
L’erba cresceva nella piazza; e delle capre dal pelo lungo e dalle corna lunghe, a spirale, pascolavano tranquillamente.
L’odore delle alghe marine, deposte sulla riva dall’alterna vicenda dei flutti, impregnava l’aria silenziosa.
Fra le barche tirate a secco alcuni marinai col berretto rosso in capo, come si vedono ancora nel promontorio sorrentino, stendevano le reti al sole; da un focolare improvvisato con due sassi, si levava una spirale di fumo azzurro, che si allargava e si sperdeva in alto.
Oltre le barche, nel vasto specchio d’acqua del porto si scorgevano alcune galee e barconi e feluche; qualcuna aveva già spiegate le vele e si accingeva a prendere il largo. Più in là ancora il Castello a mare distendevasi con le sue torri massicce, l’ampia cortina merlata, armata di bombarde, accanto alle quali, si vedevano biancheggiare le grosse palle di pietra.
Più in fondo ancora Monte Pellegrino disegnava nel cielo la sua massa rocciosa, coi fianchi verdeggianti di boschi, e le cime indorate dal primo sole.
V’era una gran pace, una tranquillità dolce e solenne a un tempo nell’aria fine e trasparente, per la quale volteggiavano stormi di rondini, salutando il sole con piccoli gridi festosi.
Un giovinetto s’era fermato con un senso di meraviglia e una certa commozione in mezzo alla piazza, guardando il palazzo chiaramontano.
Poteva avere sedici o diciassette anni, e vestiva poveramente; il suo farsetto aveva qualche strappo ai gomiti, e le sue calze erano sdrucite. La tasca che portava appesa con una cordicella, rivelava la rotondità di un pane. Le sue scarpe erano rotte e impolverate, come di chi viene da lungo viaggio. Aveva in mano un grosso bastone, e infilato alla cintura un pugnale con la guaina di cuoio.
Non era bello: il suo volto aveva qualcosa di irregolare, ma nell’insieme era piacevole ed espressivo. V’era un non so che di fiero e di malinconico a un tempo, ma una malinconia silenziosa e pacata; e gli occhi grandi, neri, acuti, mobili, investigatori, contrastavano col color dei capelli tra biondi e castani.
Doveva esser bianco di carnagione, e si vedeva dalla sommità della fronte, quando con un gesto che pareva volesse scacciar qualche torbido pensiero, egli sollevava il berretto e scostava i capelli. Ma il sole aveva abbronzato il suo volto e le sue mani.
Sebbene poveramente vestito e sporco di polvere il suo aspetto aveva qualche cosa di fine e delicato, che non sfuggiva neppure a uno sguardo superficiale e distratto.
Egli stette un poco fermo in mezzo alla piazza, guardando lo Steri; poi volse gli occhi intorno a sé, come uno che voglia riconoscere qualche cosa o qualche luogo: accortosi di una taverna a pochi passi dallo Steri, vi si avvicinò, e sedette sopra una panchetta di legno, accanto alla porta.
Aveva fame; tirò la saccoccia dinanzi a sé, e ne trasse un pane da contadini, tondo e bruno, che addentò vigorosamente.



Luigi Natoli: Il paggio della regina Bianca. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1401. L'opera è la fedele riproduzione del romanzo originale pubblicato con la casa editrice La Gutemberg nel 1921. 
Copertina di Niccolò Pizzorno.
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