Quando Agata riuscì sul Cassaro, quasi
di fronte alla Cattedrale, passava il Senato. Quello era uno spettacolo che
riempiva d’orgoglio ogni buon Palermitano.
Precedevano quattro guardie urbane a
cavallo in divisa rossa, con le piume bianche nei cappelli, e con le sciabole
sguainate; poi i musici, a cavallo anch’essi; indi i contestabili, con ampi
cappelli a tegolo, la cappa, il bastone, e dietro il mazziere, con voluminosa
parrucca a riccioli, toga, e la magnifica mazza d’argento su la spalla. Poi le
due carrozze del Senato, ampie e torreggianti sulle cinghie di cuoio; tutte
oro, con pitture e ornati graziosissimi e l’aquila del comune dipinta sugli
sportelli, superba nella sua corona regale; con le tendine di seta rossa, a
frange d’oro; e pennacchi di candidissime piume in alto. Il cocchiere, seduto
sull’alta serpe, sopra una gualdrappa con l’aquila d’argento massiccia,
troneggiava, tenendo le redini dei magnifici cavalli; e dietro sul predellino
tre staffieri, in livrea rossa, col nicchio in testa, impalati, sostenuti.
Nella prima carrozza c’era il pretore,
il priolo, ossia il primo dei senatori, e gli altri senatori, nella ricca toga
rossa col tocchetto in testa, le parrucche spioventi, magnifici; nella seconda,
il sindaco, il capitano, i giudici della corte pretoriana; il maestro
cerimoniere.
Altre guardie urbane fiancheggiavano e
seguivano le due carrozze, che andavano al passo, e dietro a esse un vero
esercito di lacchè, staffieri e schiavi, tutto il servitorame privato del
pretore e dei senatori, del capitano, che, come si sa, erano nobili.
Lo spettacolo era veramente magnifico
per la grandiosità dell’apparato, la ricchezza delle decorazioni; per tutta
quella seta, quell’argento, quell’oro profuso largamente; ma più ancora per la
maestà veramente regale del suo insieme, manifestazione del sentimento
particolare dei cittadini, pei quali poche città al mondo potevan gareggiare in
nobiltà con Palermo.
La grandiosità del Senato e della sua
pompa era il segno dell’orgoglio cittadino; e al suo passaggio il popolo
dimenticava le proprie miserie, ed era assai lontano dal pensare allo sperpero
del pubblico denaro del quale sovente quelle bianche mani signorili erano
colpevoli verso il popolo. Ogni popolano sentiva in se stesso quella
magnificenza.
Per quanto era lungo, il Cassaro era
pieno di gente, che vi formicolava in disordine, non contenuta in due ale dalla
truppa, che non era ancora uscita dalle caserme. Tutti i balconi eran pieni di
signore, di uomini, di ragazzi: in quelli della Conversazione grande, al palazzo
Cesarò, c’era il fiore della nobiltà, donne specialmente. Su, dietro le logge
coperte dei monasteri dei Sette Angeli, del Salvatore, di Montevergini, del
Cancelliere e giù giù della Martorana, di S. Caterina, delle Vergini si
travedevano bende bianche e occhi neri e irrequieti.
Allo scenario maraviglioso di tutta
questa folla, che sul grigio delle case, dall’aspetto spesso triste, metteva le
gamme più varie, più delicate o più brillanti di colore, non mancava quel
giorno che l’azzurro caldo e profondo del cielo di giugno e il sole ardente e
vivificatore.
E qual rumore per la strada! Rumore di
ruote e scalpitìo di cavalli, schioccar di fruste, grida di cocchieri e di
volanti, di portantini, o di acquaiuoli, gironzolanti, con una specie di barile
pensile dietro le spalle, e un arnese di latta dipinta, coi bicchieri e
l’ampolla dell’anice; e come fondo, o nota ferma, quel vocìo confuso di
migliaia di voci sommesse, che pare il sordo brontolio del mare, e, al di sopra
di questo e degli altri rumori, lo scampanio del duomo e delle altre chiese.
A un tratto s’udì uno scoppio di
mortaretti. La processione usciva dal duomo. Quattro tamburinai, vestiti con
zimarre o specie di pallii con maniche ampie, suonavano all’unisono in grossi
tamburi di legno, con un fracasso assordante; e dietro a loro uno stendardo e
poi a due a due una congregazione, coi confrati in sacco, cappuccio e
mantellina. Qualcuno nella folla andava indicando le varie compagnie che si
seguivano una dopo l’altra, ciascuna, col suo stendardo alla testa, il suo
cappellano e il suo superiore alla coda; quali con torce, quali con lunghi
bacoli sormontati da un emblema d’argento.
- Questi sono i facchini di San Euno,
i pescatori di San Pietro e della Kalsa, i muratori, i fallegnami... i semolai,
i pastai, i sarti.... Questa è la compagnia di Belliverdi (Valverde)... la
compagnia del Sacramento.
Ultime venivano le compagnie
aristocratiche: della Pace, della Carità, dei Bianchi. L’ordine era fissato da
un cerimoniale, per evitare contestazioni di preminenze che non mancavano mai,
e che talvolta terminavano con uno scambio di colpi di torcia... o di spada.
Sotto il sacco penitenziario c’era sempre il coltello, o lo spadino.
La nota più gaia e più commovente era
però data dai fanciulli: v’era quelli del R. Collegio Carolino, di nobili con
tre quarti di nobiltà, diretto dai padri Gesuiti; ma già troppo lisciati e
impettiti nella loro piccola boria di portatori di gran nomi; invece i
fanciulli degli Spersi bianchi e turchini, e le fanciulle “dell’Ospedale”
– cioè le trovatelle – vestite di bianco con la loro aria candida e furba nel
tempo stesso, sorridenti, di quella festa, mettevano una certa giocondità
nell’animo.
Poi venivano i conventi. La festa della
processione era arrivata a Piazza Bologni, fra lo scampanio delle chiese,
quando nella folla corse un fremito: essa ondeggiò, si riversò indietro, come
sospinta: una voce si propagò: “La truppa, la truppa!...” Erano infatti le
truppe, che, sicure dalla pioggia, uscivano per far ala e rendere gli onori al
Sagramento e al vicerè che lo seguiva.
A mano
a mano che scendevano giù per Toledo si dividevano in due ali, formando una
siepe, che conteneva la folla, lasciando libero il passo alla processione. Luigi Natoli: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine Settecento e inizi Ottocento, quando la Rivoluzione Francese porta in tutta Europa le prime idee di libertà dei popoli e nascono le prime Logge. Il protagonista Corrado Calvello è affiancato dal patriota e giureconsulto Francesco Paolo Di Blasi.
L’opera è la trascrizione del romanzo originale pubblicato dalla casa editrice La Gutemberg nel 1913.
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