La taverna dello zù Rosario si trovava
quasi all’angolo della strada della Panneria; e godeva una grande reputazione
pel vino che vi si beveva, bianco e rosso della Sala di Partinico, e per un
certo baccalà con cipolle e zibibbo passito, una ghiottoneria per cui appunto
nella culinaria casalinga aveva meritato il battesimo di baccalà alla ghiotta.
Ma più che per la sua cucina, la taverna era tenuta in gran conto, perché aveva
una clientela di gente che portava il don.
Zu’ Rosario faceva sulla parete, che
era il suo libro giornale, dei segni col carbone, che egli solo sapeva leggere:
vi erano molti di questi segni, divisi in colonne, sopra ciascuna delle quali
vi era una specie di geroglifico, che rappresentava la persona cui si riferiva
il conto sottostante. E non c’era caso che ei si sbagliasse. Questa parete
contabile era posta dietro il banco, pieno di boccali di terra smaltata,
caraffe e caraffine, bicchieri e alcune misure di stagno. Le altre pareti erano
state una volta bianche, ora la fuliggine dei fornelli, l’unto delle spalle e
delle mani che vi si appoggiavano, un po’ d’umidità le avevano ingiallite,
striate, macchiate e in qualche punto annerite. I fornelli erano in un canto,
sotto una finestra, accosto alla porta; e sulla parete vicina pendevano
casseruole di rame, padelle, graticole, caldaie; e poi una scansia piena di
stoviglie. Dietro il banco s’apriva una porticina, attraverso la quale si
scorgevano alcune botti, su cavalletti. Sopra l’architrave della porticina, una
mensoletta verdastra faceva da altarino a un quadro della Madonna col Bambino,
fra San Giuseppe e Santa Rosalia, dipinti sul vetro con quella ingenuità di
stile che è propria dei pittori popolari.
Quella che pareva una stanza,
dov’erano le botti, non era in realtà che una specie di andito buio, dal quale,
si passava in un’altra stanza: era la sala riservata a quelli che
rappresentavano il ceto eletto, la clientela aristocratica; i “galantuomini o
quasi”; una specie di arca, dove i profani non potevano penetrare; e dove i
clienti entravano da una porta che dava in un vicolo. E quella sera non era
vuota. Chi avesse dall’andito guardato la porta, avrebbe veduto, attraverso le
fessure filtrare lume; e, origliando, avrebbe udito un bisbigliar sommesso.
Questa clientela non ubbidiva ai bandi sulla chiusura delle bettole: né la
ronda penetrava nel vicolo. A due ore e mezza di notte essa passava dalla
strada della Panneria; il caporonda non mancava di bussare alla porta della
taverna; entrava; il portalanterna faceva lume in giro: naturalmente non
trovava nessuno, perché sapeva di non dover spingere le ricerche più oltre, in
virtù di un certo bicchiere di vino, che, in realtà, era quello che più
propriamente andava a cercare.
Luigi Natoli: La vecchia dell'aceto. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1700. Narra di Giovanna Bonanno, l'avvelenatrice passata alla storia come La vecchia dell'aceto.
Nella versione originale pubblicata a puntate, in appendice al Giornale di Sicilia nel 1927.
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