Quella sera, sabato, si recitava al
Casotto delle Vastasate una delle tre commedie popolari più fortunate e più
originali: il Cortile degli Aragonesi. Bisognava sentire Marotta, il celebre
comico creatore della parte di ‘Nofrio, e Giuseppe Sarcì, biondo e femineo
d’aspetto e di voce, nelle vesti di Lisa e il Montera nei panni di don Litterio
il notaio messinese, e il Corpora sotto le spoglie di Caloriu il Ciancianese.
Che risate!... La recita diurna aveva riempito la cassetta; non un posto vuoto:
e di gente ne era rimasta fuori, e non si era mossa da lì, aspettando la recita
notturna, per prendere i posti migliori, e rifarsi della lunga attesa. Laura
stava alla finestra con un vaso intimo in mano, mentre il Barone, fradicio di un
liquido che non era nanfa, minacciava con la canna in pugno, e Lisa gridava, e
‘Nofrio si sganasciava dalle risa. La folla batteva le mani, rideva, urlava,
fischiava, si abbandonava a una ilarità tempestosa che faceva tremare la
baracca.
Il Casotto era lontano: giù a Piazza
Marina, quasi un miglio di strada. Era il teatro popolare, o, come si diceva
anche, nazionale, dacchè la Sicilia era una “Nazione” per sè, e il dialetto era
considerato come lingua nazionale.
Poiché i Signori avevano per loro i
teatri di Santa Cecilia e di Santa Lucia, alcuni popolari avevano verso il 1780
fondato un teatro per loro; ed avevano costruito una grande baracca, nella
piazza Marina, nella quale recitavano commedie in dialetto, spesso
improvvisate, e delle quali i personaggi principali erano i facchini di piazza.
Facchino, in dialetto, si dice
vastasu, vocabolo prettamente greco; vastasate si chiamarono quelle commedie, e
Casotto delle vastasate il teatro. Attori e commedie levarono grido.
Fino allora a Palermo non s’era mai visto
nulla di simile. C’erano state vecchie commedie, recitate da comici di
mestiere, nelle quali il tipo buffo siciliano era rappresentato dal solito
Travaglino, o dal vieto Nardo; due maschere oramai insipide i cui lazzi e le
cui buffonerie si ripetevan sempre gli stessi. Del resto le commedie non eran
molte, e per riudirle bisognava aspettare qualche compagnia di comici randagi e
disperati. Figurarsi dunque la sorpresa e il piacere di vedere sul palco non
piú quelle maschere, ma personaggi vivi, che si vedevan ogni giorno: gli
artigiani, i provinciali, e più i facchini di piazza col loro linguaggio, coi
loro gesti, con le loro bestialità, i loro pettegolezzi, le loro baruffe, i
loro piccoli intrighi! Un mondo nuovo!
E non eran mica del mestiere, gli attori;
tutt’altro. Gente che di mattina attendeva ad altro ufficio, spesso in aperto
dissidio con Talia: Giuseppe Marotta che era il capocomico, ed era un vero
creatore di tipi, era portiere del giudice della Monarchia; Giuseppe Sarcì
portiere dell’Imprese del Lotto; degli altri chi era operaio, chi sarto, chi
povero azzeccagarbugli; e pure quanta verità, quanto sapore di arte spontanea
in quei comici improvvisati! Si capisce che la fortuna della Compagnia aveva acceso cupidigie ed emulazioni. Intorno al teatro del Marotta ne eran sorti degli altri; e altre compagnie si eran formate, ma invano: Marotta non ce n’era che uno, e don Biagio Perez che era il poeta comico della Compagnia, non aveva competitori.
Fra gli spettatori fortunati era un bel giovane di ventisei anni, non molto grande, di membra delicate, strette nell’uniforme dei fucilieri, turchina, a risvolte bianche…
Luigi Natoli: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine '700.
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