Potevano essere le
diciotto ore, e bisognava terminare di agghindare il pupo che giaceva in un
canto, poi disporre ogni cosa e prepararsi per la serata. Passò in rassegna gli
attori disposti in fila per ordine e appesi con tre fili di ferro da una parte
e dall’altra. Essi stavano immobili, con quei visi lucidi, con gli occhi
aperti, fissi in un punto che non vedevano, stretti nelle armature, che
mandavano nell’ombra bagliori. Il silenzio avvolgeva tutto quel popolo, sul
quale le mani di don Calcedonio passavano per correggere qua una piega, là un
gesto.
Egli viveva in mezzo a
quel popolo di legno e di mantello non solo perché gli dava il pane, ma perchè vi
s’era foggiato un mondo morale a sé, gli stessi sentimenti, le stesse
abitudini, quasi lo stesso linguaggio. I paladini rivivevano in lui: Orlando,
Rinaldo, Carlo Magno, Fioravante, Rizzeri, il marchese Oliveri, Ricciardetto, e
via via dicendo, erano per lui creature viventi, e nel cuor suo accoglieva
tutto quanto quei paladini avevano di eroico, di generoso, di nobilmente umano.
Quando era sul palcoscenico, e reggeva i fili dei pupi, e li faceva movere coi
gesti misurati e sempre gli stessi, e parlava con la voce alterata, non era più
lui, ma l’eroe che aveva in pugno. I colpi di spada, che percotevano le teste
di legno, erano veri; si meravigliava di non vedere il sangue correre, e una
volta mise nella marionetta una piccola vescichetta piena di sangue, che a un
colpo colava con una realtà illusiva per lui e per il minuscolo pubblico, che
montava in visibilio. Ma un personaggio non poteva soffrire: Gano di Maganza.
Il traditore! Gli riusciva ripugnante, e metteva ogni sforzo perché apparisse
ancora più laido.
Quando ebbe finito di
aggiustare ogni cosa, calò il sipario (rappresentava una scena cavalleresca)
scese dal palcoscenico; e s’avviò a casa. Non era lontana; una casa povera in
un vicolo che non vedeva il sole. Luigi Natoli: Fioravante e Rizzeri.
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