Fabrizio non aveva
ancora venti anni; ma pareva ne avesse ventiquattro; alto, ben tagliato, forte,
il volto quadrato, il naso leggermente aquilino; gli occhi vivaci e
intelligenti; un insieme gradevole, una espressione di franchezza, un po’
sbarazzina; egli riusciva subito simpatico a tutti.
Rodrigo aveva tra anni
meno di lui, e gli rassomigliava; però con una espressione meno ardita. Tutti e
due vestivano con eleganza; il che, dato il regime paterno, poteva parere
miracoloso. Perché il conte di Torralba era rigido, duro e autoritario nel governo
della casa, come lo era nell’aspetto, con quel viso arcigno che pareva avesse
bandito il sorriso dalle labbra sottili e strette.
Pieno di un esagerato
concetto della sua autorità esercitava sulla famiglia un potere più che
assoluto, dispotico: al quale aveva assoggettato anche la moglie, che era tutto
l’opposto di lui; grassoccia, molle, sorridente, carezzevole, che si sarebbe
forse abbandonata alla sua indole affettuosa ed espansiva, se non glielo avesse
impedito la soggezione che le metteva il marito. Dal loro matrimonio erano nati
cinque figli: don Francesco, che era il primogenito, due femine che erano nel
monastero della Pietà, Fabrizio e Rodrigo; ma per il conte non esisteva che un
figlio solo: il primogenito, al quale dava un forte assegno mensile, e inoltre appartamentino
proprio, servitori, carrozze, piena libertà di rientrare in casa la notte,
quando gli piaceva; di far debiti, che il conte pagava. Per lui soltanto la
bocca del conte trovava sorrisi e parole affettuose; non già per vero
sentimento di tenerezza, ma perché don Francesco era il rappresentante della
futura discendenza dei Torralba; era il futuro conte; il ramo privilegiato
dell’albero genealogico. Ai cadetti invece non assegnava che una sommerella
irrisoria, che non sarebbe bastata neppure per le calze; sulla quale essi
dovevano vestirsi decorosamente, pagare il cappellaio, il calzolaio, fornirsi
di biancheria e di pizzi, pagare il barbiere, far regali e dar mance: ragione
per la quale nelle loro tasche i ragni avrebbero potuto filare le loro reti.
Essi dovevano perciò industriarsi, per non sfigurare nella società
aristocratica nella quale dovevano – per onore del casato – vivere. E facevano
debiti col sarto, col calzolaio, con tutti. E li pagavano quando potevano; né i
creditori protestavano. Oltre alla fiducia che avevano nei signori, ritenevano
quasi dover loro far figurare i giovani cadetti delle nobili case; e pareva
loro un disonorarsi rifiutandosi di vestirli con quella proprietà che conveniva
alla condizione di essi. Del resto si rifacevano un po’ sui primogeniti e sui
padri.
Luigi Natoli: I mille e un duelli del bel Torralba.
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