Poco oltre la metà della
strada Celso, che correva lungo le mura settentrionali della città antica, –
ancora visibili, – sorgeva un palazzo, detto degli Schiavi. Non si sa l’origine
di questa denominazione, al tempo dei Saraceni e dei primi re normanni, quando
Palermo serbava ancora la sua forma primitiva, ed era separata con mura e torri
dagli altri quartieri sortivi intorno fin dai tempi dei Romani, di là dalla
Sere el Kes (via della Calce) diventata per trasformazione la strada del Celso,
si stendeva la regione transpapiretana, oggi detta del Capo, il quartiere della
Beccheria, quello degli Amalfitani, dei Catalani, e via dicendo. Quella che
oggi è la parte bassa del quartiere del Capo, era al tempo dei Saraceni il
quartiere degli Schiavi o Schiavoni. Il cadì di questo quartiere abitava nella
Sera el Kes. Può darsi che la sua casa fosse appunto quella detta qualche
secolo dopo il Palazzo degli Schiavi. Nel 1322 esso apparteneva a due fratelli
della nobile famiglia dei Palizzi, Damiano e Matteo, figli di quel Nicolò che
aveva eroicamente difesa Messina, nel secondo assedio postovi dagli Angioini, e
che a Roberto d’Angiò e a Filippo de Valois aveva dato la memoranda fierissima
risposta. La gloria di Nicolò aveva schiuso le porte della reggia ai figli.
Damiano era entrato nel chiericato, Matteo era destinato a continuare il
casato. Era di poco maggiore età dell’infante Pietro, e ne divenne compagno,
consigliere e guida nei sollazzi e nelle avventure.
Nel 1322 Matteo aveva
circa vent’anni. Di statura media, bruno, pallido in volto, neri i capelli e
gli occhi; non era brutto, ma aveva nello sguardo freddo e tagliente come la
lama di un pugnale qualche cosa che agghiacciava il sangue e annullava la
volontà. Tutti i lineamenti del suo volto, dal naso lievemente aquilino, al
taglio della bocca, dall’ampiezza della mascella alla durezza del mento
prominente, dalla convessità della fronte alla ruga che s’insolcava diritta e
profonda fra le sopraciglia folte e nere, rivelavano una volontà tenace, una
grande ambizione di dominare, violenza, simulazione e insensibilità di cuore.
V’era qualche cosa di felino e di volpino.Tutto volpe era invece
Damiano, anche negli occhi gialli. Egli aveva quattro anni più di Matteo, sul
quale aveva, più che per l’età, acquistato un certo ascendente con la
sottigliezza dei suoi suggerimenti, con la ricchezza degli espedienti che la
sua mente feconda sapeva trovare per trarsi d’impaccio, con la perfidia tenebrosa
de’ suoi disegni. Era anche lui ambizioso, ma non soltanto per sé, anche per
Matteo, pel quale aveva una certa tenerezza. Nicolò non aveva lasciato loro altre ricchezze che la fama: poche terre che non rendevan molto; e che non consentivano a Matteo di sfoggiare come i Chiaramonte, i Ventimiglia, messer Matteo Sclafani, e quei signori catalani, che venuti poveri in Sicilia, s’andavano arricchendo delle terre tolte con la frode, coi tradimenti, colle concessioni regie, agli antichi signori indigeni.
Matteo aveva però trovato nella Corte una protettrice: la regina Eleonora.
La regina Eleonora, moglie di Federigo, era ancora giovane; nasceva di casa Angiò, e veniva da una corte galante; quel giovane freddo, cupo, energico, gli occhi del quale avevano sinistri bagliori, non le destò nessuna avversione: anzi le parve un frutto strano e di sapor nuovo. E fu lei che lo ammise fra i familiari di corte e lo diede compagno all’Infante Pietro; ciò che le dava occasione di vederselo sempre accanto.
Quando l’Infante era ancor fanciullo e Matteo era un giovinetto, ella li confondeva nella stessa carezza: ma le sue mani si indugiavano di più, e con un piacere diverso, sul capo del giovane Palizzi. Pareva che ella aspettasse che il giovinetto crescesse ancora un po’. Il frutto era ancor troppo acerbo. Con gli anni il desiderio si fece in lei più intenso: nel 1322 Eleonora aveva trentanove anni circa: ed era ancor bella.
Luigi Natoli
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