Il re giunse poco dopo,
con la regina Elisabetta e poco seguito. V’erano Damiano e Matteo Palizzi, il
confessore della regina fra Giovanni dei Predicatori, il grande scudiero, il
capitano delle guardie, alcuni cavalieri. Tutti a cavallo. Il re era serio, e
questa serietà aggiungeva qualche cosa di più triste al pallore malaticcio del
volto. Alle parole di benvenuto rivoltegli dal pretore messer Alighiero,
rispose breve e secco; prese posto con la regina sotto il grande pallio o
baldacchino, di cui ressero le aste i sei giurati, ed entrò in città, preceduto
dai cavalieri, dai nobili, dai tamburi della città, fra il pretore e il
capitano, senza dire una parola. Agli applausi dei mercanti rispose con un
breve cenno del capo; ma corrugò le sopracciglia passando tra la massa del
popolo, dalla quale partì qualche sparuto e timido evviva. Il popolo guardava
più con curiosità delusa, che con entusiasmo. Sebbene quello scarso seguito,
potendo sembrare una condiscendenza alla volontà popolare, dovesse soddisfare gli
scalmanati di ieri, tuttavia il popolo s’aspettava di vedere il re con tutto il
suo seguito, in tutta la sua volontà imperiosa di sovrano e signore; e quella
arrendevolezza, quel cedere al tumulto giudicata una prova di debolezza, che lo
spogliava di ogni regalità, scemava con la maestà del re anche l’entusiasmo del
popolo.
Anche mastro Bertuchello
era andato a vedere l’ingresso e il veder il re, con così poco seguito, da meno
di un barone, e più voglioso di giungere alla reggia che di raccogliere gli omaggi
dei vassalli, gli fece errare un sorriso ironico sulle labbra. Ma dietro del re
v’erano i Palizzi; e Matteo fosco e accigliato guardava il popolo come scontento
della freddezza del popolo. Se non che a Bertuchello che lo fissò in volto, in
un momento in cui il conte si voltava verso di lui, sembrò scorgergli sulla
bocca un sogghigno perfidamente ambiguo.
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