Entrando in mezzo al lusso degli equidaggi, tra i bei cavalli caracollanti, cavalcati da giovani signori azzimati, profumati, inappuntabili, il giovane cavaliere non sembrò vergognarsi, ma tentando coi lunghi sproni e con certi strettoni delle redini di infondere un po’ di vivacità alla sua rozza stanca, infangata, teneva il capo eretto con aria spavalda e quasi di sfida, senza curarsi degli sguardi curiosi e beffardi e dei motteggi salati, coi quali era accolto il suo passaggio. Aveva oltrepassato il Convento della vittoria, scansando, per caso o di proposito, ogni urto, quando si vide venir di fronte, di buon trotto, due cavalieri, che pareva andassero allo sportello di una magnifica carrozza tirata da sei cavalli bianchi. Uno dei cavalieri, chinandosi talvolta sul collo del cavallo e svolgendo il viso, pareva parlasse con qualcuno dentro la carrozza.
Il cavaliere campagnuolo anche questa volta cercò di tirarsi da parte ma la sua rozza non ebbe una sollecitudine proporzionata alla nobile furia con la quale gli venivano addosso i due cavalieri; sicchè uno dei due eleganti, strisciando al lato della rozza, urtò con la caviglia contro la staffa massiccia del giovane, con fianco contro il calcio dell’archibugio e si fece uno strappo alla falda del vestito, impigliatasi nella punta metallica del calcio. L’elegante cavaliere si voltò infiammato di sdegno, senza trattenere il cavallo; gridando, nel tempo stesso che il giovane, alla sua volta, fermando la rozza vacillante, si voltava anche lui e gridava: i due gridi si incrociarono come due lame:
- Villano!
- Mascalzone.
Nel frastuono dei cocchi e dei cavalli, e nella furia con cui proseguirono, l’incidente passò quasi inosservato; i sei cavalli bianchi continuavano il loro trotto, e i due cavalieri, che, forse, di urti ne davano e ne pigliavano con frequenza, seguitarono a caracollare accanto alla carrozza. Ma lo strano viaggiatore non parve pigliasse la cosa con tanta leggerezza. Voltò indietro il ronzinante e cacciandogli i lunghi sproni nei fianchi, furiosamente, lo spinse per rincorrere la carrozza e i cavalieri.
Non gli fu necessario percorrere troppo cammino; perchè la carrozza, giunta alla fontana dei Cappuccini, ritornava indietro; cosicchè il bel cavaliere grottesco si trovò ben presto di faccia ai due eleganti.
Questa volta sbarrò loro il passo, piantandosi sulla loro strada, col pugno sul fianco, il capo eretto, e il cappellaccio calcato sopra l’occhio:
- Signore! – gridò, costringendoli a fermarsi, e volgendosi a quello che lo aveva urtato: – poco fa vi ho dato del mascalzone. M’accorgo di avere errato e ve ne domando scusa...
- Sta bene... levatevi dai piedi adesso...
- Un momento; ve ne domando scusa, e rettifico: voi siete un imbecille.
A questa uscita il gentiluomo arrossì di collera e, spinto il cavallo, gridò:
- Villanaccio malcreato! Ti farò insegnare dai miei servi il rispetto che si deve ai pari miei.
- Per bacco signore!... Avete dunque dei servi per tutori della vostra dignità e del vostro coraggio?...
L’altro gentiluomo allora intervenne, cacciando il suo cavallo in mezzo, con visibile impazienza:
- Andiamo, principe! vi sembra degno di un par vostro scendere a tu per tu con un pezzente, che basterebbe guardare per riderci sopra?... Andiamo!...
- Capperi, signore; ecco una cosa che ci differenzia: voi ridete per cose insignificanti, come sarebbero i cenci; io rido di ben altre miserie d’un ridicolo più elevato, per esempio, rido di voi!... E poiché vi ho detto quel che volevo dirvi, vi sono umilissimo e devotissimo servitore, e vi lascio in libertà.
Si tolse il cappellaccio con comica gravità, scotendo la folta capigliatura in due inchini burleschi; e voltata la briglia si trasse da parte, fra il dispetto e lo stupore che mal si celavano sotto la maschera disdegnosa e superba dei due signori. Poi a un tratto, come risovvenendosi di qualche cosa, aggiunse:
- A proposito; se mai lor signori avessero qualche cosa da farmi sapere io mi chiamo Blasco da Castiglione, e vado ad albergare nella locanda del Messinese.
Ma i due gentiluomini lo guardarono con superbo disdegno, e spronati i cavalli per raggiungere la carrozza, che si era fermata e dal cui sportello si sporgeva una graziosa testa di donna, gli dissero, passando:
- Ti manderemo gente degna di te...
Il giovane li seguì con l’occhio, sorridendo ironicamente e calcatosi con un pugno il capello sulla fronte, riprese la strada, dicendo fra sé giocondamente:
- Per bacco! Pare che questi gentiluomini abbiano spada di legno inargentato... Intanto, Blasco mio, eccoti una prima avventura alle porte della capitale: “prima sedes corona regis et regni caput”, come diceva padre don Giovanni mio maestro... Povero padre don Giovanni!... dove sarà ora?
Spronò il ronzinante, mentre si frugava in tasca, come per rassicurarsi che qualche cosa c’era ancora.
- C’è – disse fra sé; – questo è l’unico filo per rintracciare la mia famiglia... Vediamo, dunque: scenderò alla locanda delle Messinese, vicino il teatro dei Musici. Dove sarà il teatro dei Musici? Poi andrò a S. Francesco dei Chiovari a cercare padre Bonaventura, e gli darò la lettera... se padre Bonaventura sarà ancor vivo! Contiamo: son passati... sei... dieci.... quindici anni!... quindici anni!... Non par vero! e ne abbiamo fatte, o meglio, ce ne hanno fatte fare pazzie; ora, Blasco, è tempo di metter giudizio.
Entrò da Porta Nuova, dove i gabellieri vollero frugare nel sacchetto, se mai vi fosse qualcosa da far pagare. Che diamine poteva nascondere in quel sacchetto, nel quale c’era appena una camicia, un farsetto, due paia di calze, e un fazzoletto finissimo ornato di magnifico pizzo? Toh! e non ci poteva essere del tabacco? Lasciò fare, sbuffando: pareva che i gabellieri lo menassero in giro. Egli si sentiva pizzicar le mani e, forse, i suoi occhi dovettero illuminarsi di una luce tanto sinistra, che i gabellieri lasciarono andare.
Percorse il Cassaro, sorpreso alla vista dei palazzi, del Duomo, dei grandi e magnifici edifizi che fiancheggiavano la nobile strada: ma giunto ai Quattro Canti si fermò irresoluto, non sapendo da che parte piegare.
Quei quattro prospetti, uguali di grandezza, di architettura, ornati di vasche, di statue, di emblemi, oltre a empirlo di stupore, lo imbarazzarono. Domandò la strada, e così, guidato un po’ dalle indicazioni, un po’ dalla sua stessa iniziativa, giunse finalmente alla locanda del Messinese, che si trovava in una piazzetta, che ancor conserva il nome con una lieve mutazione del genere, in una stradetta contigua al teatro dei Musici o di Santa Cecilia.
Una piccola insegna, simile a una bandiera, su cui era dipinta una bottiglia con due bicchieri in bianco e rosso, gli indicò la porta; che anche, senza quella insegna, forse, sarebbe stata ugualmente riconoscibile da due banchi posti di qua e di là dalla strada, ed all’aspetto dell’oste, grasso, lucido, con un grembiale dinanzi, nel quale si asciugava le mani tozze e pelose.
Lo scalpitar del cavallo sui ciottoli aveva forse richiamata la sua attenzione; ma l’aspetto del cavallo e del cavaliere non gli parvero tali da meritarsi più che un saluto di convenienza.
Luigi Natoli: I Beati Paoli. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine settecento.
L'opera è la ricostruzione del romanzo originale pubblicato dall'autore mentre era ancora in vita, in dispense, dalla casa editrice La Gutemberg nel 1931.
Pagine 938 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
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