mercoledì 25 gennaio 2023

Luigi Natoli e i Beati Paoli: entra in scena Blasco da Castiglione. Tratto da: I Beati Paoli. Romanzo storico siciliano.

Entrando in mezzo al lusso degli equidaggi, tra i bei cavalli caracollanti, cavalcati da giovani signori azzimati, profumati, inappuntabili, il giovane cavaliere non sembrò vergognarsi, ma tentando coi lunghi sproni e con certi strettoni delle redini di infondere un po’ di vivacità alla sua rozza stanca, infangata, teneva il capo eretto con aria spavalda e quasi di sfida, senza curarsi degli sguardi curiosi e beffardi e dei motteggi salati, coi quali era accolto il suo passaggio. Aveva oltrepassato il Convento della vittoria, scansando, per caso o di proposito, ogni urto, quando si vide venir di fronte, di buon trotto, due cavalieri, che pareva andassero allo sportello di una magnifica carrozza tirata da sei cavalli bianchi. Uno dei cavalieri, chinandosi talvolta sul collo del cavallo e svolgendo il viso, pareva parlasse con qualcuno dentro la carrozza.
Il cavaliere campagnuolo anche questa volta cercò di tirarsi da parte ma la sua rozza non ebbe una sollecitudine proporzionata alla nobile furia con la quale gli venivano addosso i due cavalieri; sicchè uno dei due eleganti, strisciando al lato della rozza, urtò con la caviglia contro la staffa massiccia del giovane, con fianco contro il calcio dell’archibugio e si fece uno strappo alla falda del vestito, impigliatasi nella punta metallica del calcio. L’elegante cavaliere si voltò infiammato di sdegno, senza trattenere il cavallo; gridando, nel tempo stesso che il giovane, alla sua volta, fermando la rozza vacillante, si voltava anche lui e gridava: i due gridi si incrociarono come due lame:
- Villano!
- Mascalzone.
Nel frastuono dei cocchi e dei cavalli, e nella furia con cui proseguirono, l’incidente passò quasi inosservato; i sei cavalli bianchi continuavano il loro trotto, e i due cavalieri, che, forse, di urti ne davano e ne pigliavano con frequenza, seguitarono a caracollare accanto alla carrozza. Ma lo strano viaggiatore non parve pigliasse la cosa con tanta leggerezza. Voltò indietro il ronzinante e cacciandogli i lunghi sproni nei fianchi, furiosamente, lo spinse per rincorrere la carrozza e i cavalieri.
Non gli fu necessario percorrere troppo cammino; perchè la carrozza, giunta alla fontana dei Cappuccini, ritornava indietro; cosicchè il bel cavaliere grottesco si trovò ben presto di faccia ai due eleganti.
Questa volta sbarrò loro il passo, piantandosi sulla loro strada, col pugno sul fianco, il capo eretto, e il cappellaccio calcato sopra l’occhio:
- Signore! – gridò, costringendoli a fermarsi, e volgendosi a quello che lo aveva urtato: – poco fa vi ho dato del mascalzone. M’accorgo di avere errato e ve ne domando scusa...
- Sta bene... levatevi dai piedi adesso...
- Un momento; ve ne domando scusa, e rettifico: voi siete un imbecille.
A questa uscita il gentiluomo arrossì di collera e, spinto il cavallo, gridò:
- Villanaccio malcreato! Ti farò insegnare dai miei servi il rispetto che si deve ai pari miei.
- Per bacco signore!... Avete dunque dei servi per tutori della vostra dignità e del vostro coraggio?...
L’altro gentiluomo allora intervenne, cacciando il suo cavallo in mezzo, con visibile impazienza:
- Andiamo, principe! vi sembra degno di un par vostro scendere a tu per tu con un pezzente, che basterebbe guardare per riderci sopra?... Andiamo!...
- Capperi, signore; ecco una cosa che ci differenzia: voi ridete per cose insignificanti, come sarebbero i cenci; io rido di ben altre miserie d’un ridicolo più elevato, per esempio, rido di voi!... E poiché vi ho detto quel che volevo dirvi, vi sono umilissimo e devotissimo servitore, e vi lascio in libertà. 
Si tolse il cappellaccio con comica gravità, scotendo la folta capigliatura in due inchini burleschi; e voltata la briglia si trasse da parte, fra il dispetto e lo stupore che mal si celavano sotto la maschera disdegnosa e superba dei due signori. Poi a un tratto, come risovvenendosi di qualche cosa, aggiunse:
- A proposito; se mai lor signori avessero qualche cosa da farmi sapere io mi chiamo Blasco da Castiglione, e vado ad albergare nella locanda del Messinese.
Ma i due gentiluomini lo guardarono con superbo disdegno, e spronati i cavalli per raggiungere la carrozza, che si era fermata e dal cui sportello si sporgeva una graziosa testa di donna, gli dissero, passando:
- Ti manderemo gente degna di te...
Il giovane li seguì con l’occhio, sorridendo ironicamente e calcatosi con un pugno il capello sulla fronte, riprese la strada, dicendo fra sé giocondamente:
- Per bacco! Pare che questi gentiluomini abbiano spada di legno inargentato... Intanto, Blasco mio, eccoti una prima avventura alle porte della capitale: “prima sedes corona regis et regni caput”, come diceva padre don Giovanni mio maestro... Povero padre don Giovanni!... dove sarà ora?
Spronò il ronzinante, mentre si frugava in tasca, come per rassicurarsi che qualche cosa c’era ancora.
- C’è – disse fra sé; – questo è l’unico filo per rintracciare la mia famiglia... Vediamo, dunque: scenderò alla locanda delle Messinese, vicino il teatro dei Musici. Dove sarà il teatro dei Musici? Poi andrò a S. Francesco dei Chiovari a cercare padre Bonaventura, e gli darò la lettera... se padre Bonaventura sarà ancor vivo! Contiamo: son passati... sei... dieci.... quindici anni!... quindici anni!... Non par vero! e ne abbiamo fatte, o meglio, ce ne hanno fatte fare pazzie; ora, Blasco, è tempo di metter giudizio.
Entrò da Porta Nuova, dove i gabellieri vollero frugare nel sacchetto, se mai vi fosse qualcosa da far pagare. Che diamine poteva nascondere in quel sacchetto, nel quale c’era appena una camicia, un farsetto, due paia di calze, e un fazzoletto finissimo ornato di magnifico pizzo? Toh! e non ci poteva essere del tabacco? Lasciò fare, sbuffando: pareva che i gabellieri lo menassero in giro. Egli si sentiva pizzicar le mani e, forse, i suoi occhi dovettero illuminarsi di una luce tanto sinistra, che i gabellieri lasciarono andare.
Percorse il Cassaro, sorpreso alla vista dei palazzi, del Duomo, dei grandi e magnifici edifizi che fiancheggiavano la nobile strada: ma giunto ai Quattro Canti si fermò irresoluto, non sapendo da che parte piegare.
Quei quattro prospetti, uguali di grandezza, di architettura, ornati di vasche, di statue, di emblemi, oltre a empirlo di stupore, lo imbarazzarono. Domandò la strada, e così, guidato un po’ dalle indicazioni, un po’ dalla sua stessa iniziativa, giunse finalmente alla locanda del Messinese, che si trovava in una piazzetta, che ancor conserva il nome con una lieve mutazione del genere, in una stradetta contigua al teatro dei Musici o di Santa Cecilia.
Una piccola insegna, simile a una bandiera, su cui era dipinta una bottiglia con due bicchieri in bianco e rosso, gli indicò la porta; che anche, senza quella insegna, forse, sarebbe stata ugualmente riconoscibile da due banchi posti di qua e di là dalla strada, ed all’aspetto dell’oste, grasso, lucido, con un grembiale dinanzi, nel quale si asciugava le mani tozze e pelose.
Lo scalpitar del cavallo sui ciottoli aveva forse richiamata la sua attenzione; ma l’aspetto del cavallo e del cavaliere non gli parvero tali da meritarsi più che un saluto di convenienza.


Luigi Natoli: I Beati Paoli. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine settecento. 
L'opera è la ricostruzione del romanzo originale pubblicato dall'autore mentre era ancora in vita, in dispense, dalla casa editrice La Gutemberg nel 1931. 
Pagine 938 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
https://www.ibuonicuginieditori.it/store/product/luigi-natoli-i-beati-paoli
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria.

Luigi Natoli: I Beati Paoli. Così inizia il romanzo... Tratto da: I Beati Paoli. Romanzo storico siciliano.


La strada di Mezzomonreale che per oltre tre miglia corre diritta dal piede del colle Caputo alla Porta Nuova di Palermo, era nel secolo XVIII per un buon tratto, dalla porta fino al Convento dei Cappuccini, fiancheggiata di grandi e ombrosi alberi, fattivi piantare da Marcantonio Colonna durante il suo viceregno. Alcune fontane, delle quali ancora ne avanza qualcuna, ornavano il largo viale, e dei sedili offrivano comodi riposi all’ombra. Di qua e di là, oltre i muri che fiancheggiavano la strada, oltre le case rare, si stendevano orti e prati e agrumeti, sorgevano ville magnifiche, qualche chiesa lanciava sopra il verde, il suo campanile squillante, il vetusto e grigio palazzo della Cuba torreggiava, triste e solitario superstite di una grandezza scomparsa, ridotto a caserma di cavalleria.
Questo stradale era in quei tempi una delle passeggiate favorite dai cittadini di Palermo, specie nelle ore vespertine e nelle prime ore notturne, nelle quali le ombre avvolgevano di mistero i convegni degli innamorati. Nel pomeriggio la strada era percorsa da portantine e carrozze rilucenti di dorature, sormontate da grandi pennacchi svolazzanti, e da una parte e dall’altra da domestici borghesi e popolani, che non potendo concedersi il lusso di esser trasportati dai piedi altrui, si compiacevano di riconoscere e ammirare gli equipaggi, che fragorosamente andavano e venivano fra porta Nuova e la fontana dei Cappuccini. I giovani signori preferivano andare a cavallo, caracollando fra le carrozze e le portantine, per far mostra della loro abilità e sfoggiare la ricchezza del loro abbigliamento.
Le carrozze di quel tempo erano ben diverse da quelle odierne così svelte e leggere; eran pesanti macchine, sorrette da cinghie di cuoio sopra ruote tozze e massiccie; veri monumenti ambulanti, avevan nondimeno qualcosa di magnifico e di imponente. Eran tirate da quattro, sei, talvolta anche otto cavalli, tutti d’un manto, attaccati a due a due, con bardature e finimenti ricchissimi, con pennacchi dai vivaci colori sulla testa. Le qualità e i mezzi del signore si rivelavano nella ricchezza delle scolture, nella bontà delle decorazioni pittoresche, spesso affidate ad artisti di grido, nella profusione dell’oro. Uno, quattro o cinque pennacchi sormontavano la cupola; tende di seta con frange d’oro pendevano nell’interno, tappezzato di cuoio o di velluto. Il cocchiere troneggiava e veramente la cassetta su cui sedeva, coperta di una gualdrappa di velluto, con le armi della casa d’argento e d’oro massiccio cesellato, pareva un trono, o un altare; ed egli un nume, nella sua ricca livrea, e nel gesto solenne col quale teneva le redini. Due o tre lacchè in livree non meno ricche, stavano ritti dietro la cupola della carrozza, tenendosi a delle maniglie; e dinanzi ai cavalli, e ai fianchi della carrozza, andavano i volanti trotterellando, in pugno le torce, che all’ave avrebbero acceso per rischiar la strada al padrone, costretti a gareggiar col passo dei cavalli, a scansar cento volte l’urto di altri volanti e di altre carrozze, o le zampe dei cavalli caracollanti.
Nè meno ricche eran le portantine, graziosi ninnoli al paragone delle carrozze, di seta, d’oro, di pitture, trasportate da servi in magnifiche livree, circondate anch’esse da volanti. Fra esse se ne vedeva qualcuna più semplice, anzi sobria; o era da nolo, o apparteneva a qualche medico o prete.
Una passeggiata in quel principio di secolo aveva dunque un aspetto di magnificenza e di ricchezza, e una varietà di colori e di luccichii, di cui difficilmente oggi possiamo farci un’idea.
In mezzo a questa magnificenza s’insinuava talvolta qualche carretto, o qualche “retina” di muli carichi o di sacchi di frumento o di otri, che attardatisi per la strada, giungevano in Palermo sul tramonto; e si fermavano dinanzi una taverna. I lacchè, insolenti e soverchiatori, ributtavano da una parte carri e muli, quando non facevano in tempo a lasciar libero il passo; nè si davan pensiero se qualche sacco andava per terra, e il grano si spandeva.
Appunto nell’ora del passeggio, e quando più risplendeva la pompa lussureggiante dei signori, un pomeriggio di settembre del 1713 scendeva dalla strada di Monreale verso Palermo un giovane cavaliere, il cui assetto stonava maledettamente con quell’apparato di ricchezza, e più con l’espressione del volto.
Non era infatti possibile immaginare nulla di più grottesco e di più caratteristico. Un cavallo da contadino, dal collo magro, dalle zampe nodose, i fianchi magri e ossuti, la criniera rada e ispida, aveva avuto l’onore di una sella guerresca con gli arcioni alti, le staffe larghe, le fondine delle pistole istoriate di cuoio a colori, fermata sopra una gualdrappa di velluto rosso cupo ricamata e frangiata; ma la povera bestia non pareva compresa dell’onore toccatole, e andava con un passo da somaro, scotendo la testa umile e dimessa. Su questo cavallo torreggiava un giovane robusto, di bello e fiero aspetto, vestito di una specie di casacca, il cui taglio ricordava forse i suoi avi con stivali di cuoio alti fino alla coscia, e in capo un cappellaccio contadinesco, ornato di una piuma inverosimile. Il mantello di panno azzurro cupo, rotolato e ripiegato, gli giaceva attraverso l’arcione; e su di esso poggiava un vecchio archibugio e un sacchetto. Un’antica spada, lunga, dall’elsa larga e traforata, gli pendeva da fianco, battendo sulla sella ritmicamente; e i sacchetti per le polveri e per le palle gli pendevano dietro le reni. Non aveva la parrucca dalle lunghe anella ricciolute; ma una folta capigliatura bruna piovente a ciocche ondeggianti e incolte sulle tempie e sulle spalle. Tra la povertà e la stranezza dell’abbigliamento e la nobiltà delle fattezze v’era un contrasto non meno violento e comico di quello che fosse tra la meschinità apocalittica del cavallo e la bordatura signorile e guerresca...


Luigi Natoli: I Beati Paoli. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine settecento. 
L'opera è la ricostruzione del romanzo originale pubblicato dall'autore mentre era ancora in vita, in dispense, dalla casa editrice La Gutemberg nel 1931. 
Pagine 938 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
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lunedì 23 gennaio 2023

Luigi Natoli: Il vecchio edificio sorgeva dinanzi a lui... Tratto da: La principessa ladra. Romanzo storico siciliano.

La notte precipitava; dietro capo Zafferano il cielo appariva meno tenebroso, quando i banditi cominciarono a scendere dalla china del monte Caputo.
Per far più presto, e più agevolmente, si misero in sei a trasportare il cavaliere. La distanza non era grande; in mezz’ora essi giunsero dinanzi la casa di Ciancimino. Era ancor troppo presto perché i contadini si destassero all’usato lavoro; cosicchè i banditi poterono compiere il loro incarico senza essere veduti da alcuno.
Adagiato il cavaliere dietro la porta, essi si sparpagliarono e per vie diverse s’avviarono verso il Castellaccio.
Capitan Ciancimino aveva seguito con lo sguardo il cavaliere, l’aveva veduto entrare nel Castellaccio, e aveva aspettato l’esito di quell’avventura. Aspetta, aspetta; il tempo scorreva; il cavaliere non ritornava.
- Che diavolo gli sarà accaduto?
Nessun grido, nessun rumore di lotta era giunto al suo orecchio e a quello dei suoi compagni; e questo gli pareva segno certo che non avesse avuto alcun incontro. Ma intanto il ritardo cominciava a impensierirlo.
Il vecchio edificio sorgeva dinanzi a lui, con la sua massa bruna, silenziosa, nella profonda quiete delle cose morte e abbandonate. Nessun indizio, nessun segno o rumore di esseri viventi; e pure vi doveva almeno essere un uomo.
Quando gli parve d’aver aspettato più che fosse necessario, capitan Ciancimino disse fra sè:
- Diavolo! che gli sia accaduta qualche disgrazia?
Guardò i compagni: alcuni, nell’immobilità in cui giacevano si erano addormentati e russavano; altri sbadigliavano. Uno gli disse:
- Don Carlo, che vogliamo passare qui tutta la notte, senza conchiudere nulla? Scommetto che il cavaliere s’è sognato tutta quella storia...
Il capitano allora chiamò due compagni:
- Andate fino alla breccia, e chiamate il cavaliere...
Ma quelli fecero una smorfia espressiva: perché non ci andava il signor capitano? Nessuno dei compagni parve disposto ad avventurarsi tra quelle rovine, dove si sapeva e si credeva che abitassero spiriti, e fossero incantesimi.
Il cavaliere era caduto certamente in potere degli spiriti. Ma il capitano non volle dare esempio di debolezza. Si armò di tutto il suo coraggio, e rampognò la viltà dei suoi compagni:
- Siete delle vere carogne! Andrò a vedere io!
Con lo schioppo sul braccio, la pistola alla cintola, si avviò verso il Castellaccio; tre o quattro, vergognandosi di lasciarlo andar solo, lo seguirono.
- Avete torto, don Carlo! Sapete bene che quando si tratta di rischiar la pelle contro gente in carne, pelle e ossa, non indietreggiamo... Ma contro gli spiriti, non c’è fucili e pistole che valgano!...
Giunsero dinanzi alla breccia, non senza commozione. Un miagolìo e un soffiar di gufi e di civette risonò sinistro al loro orecchio.
Il capitano chiamò a voce alta:
- Eccellenza! eccellenza!
Nessuno rispose.
- Signor cavaliere! signor cavaliere!...
Lo stesso silenzio. La voce risonava nella vacuità triste e orrida delle rovine, come una voce d’altro mondo; e il capitano e i suoi uomini, ne provavano una sensazione strana, un rimescolìo nel sangue e nei capelli. Varcarono nondimeno la soglia dell’immane apertura, e si fermarono dinanzi alla vasta sala, chiamandolo di nuovo:
- Signor cavaliere!... Eccellenza!
L’eco ripeté con una voce più chioccia, triste, dolorosa:
- Cavaliere... eccellenza...
Le leggende di pavimenti che s’aprivano e inghiottivano gli audaci o gl’incauti; di grotte che si chiudevano e imprigionavano eternamente coloro che osavano violarne la soglia temuta; tutto il mondo straordinario e terribile delle superstizioni pluteniche, turbava e offuscava quelle menti.
Oltrepassarono la breccia, con una grande commozione, temendo ognuno che si richiudesse per incanto; e quando ne furono fuori, si sentirono quasi liberati da un grande pericolo e respirarono. Ritornarono a riprendere i cavalli.
Il lettighiere dormiva; i cavalli sonnecchiavano. Rimontarono in sella. Il lettighiere ridestandosi, rimase stupito al non vedere il cavaliere di Santa Croce. Ne domandò.
- Se n’è andato! – rispose asciutto asciutto il capitano.
Era giorno quando rientrarono in Monreale. Il capitano si accorse con suo stupore, di un gran crocchio di gente fermo dinanzi la porta della sua casa; non sapendo che cosa fosse, e impensierito, spronò il cavallo; il crocchio si aperse.
Capitan Ciancimino balzò di sella, e mandò un grido di stupore e di spavento. Aveva riconosciuto il cavaliere di Santa Croce, che giaceva ancora immobile, immerso nel profondo sonno, sulla soglia dell’uscio...


Luigi Natoli: La principessa ladra. Romanzo storico siciliano. 
L'opera è la ricostruzione del romanzo originale pubblicato in dispense con la casa editrice La Gutemberg nel 1930. 
Pagine 756 - Prezzo di copertina € 24,00. 
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria. 

Luigi Natoli: Il mistero del Castellaccio. Tratto da: La principessa ladra. Romanzo storico siciliano.

Donna Flora senza rilevare quella esclamazione, si alzò con un’idea. Si avvicinò alla parete dalla quale avea veduto scomparire l’uomo dalla maschera nera, e cominciò a tastarla con le mani, a picchiarvi leggermente, dall’alto al basso, per sentire se risonasse, e per poter così trovare la porta. Ma per quanto picchiasse, la parete dava un suono opaco, e uguale, ed ella sentiva sotto la sua mano la durezza dell’intonaco. Corse dietro il letto, donde aveva veduto apparire e scomparire il servo; ma anche qui nessun indizio di vuoto.
Dov’erano dunque le porte? C’era un segreto impenetrabile, del quale l’uomo dalla maschera doveva esser sicurissimo, se poteva entrare e uscire sotto gli occhi della sua prigioniera, senza sospetto.
La duchessa tentò ancora una volta, ma riconobbe la inutilità dei suoi sforzi, e poiché si sentiva stanca, si sdraiò sul letto dicendo alla cameriera:
- Siedi costì Marianna, ai piedi del letto, e non ti addormentare.
Marianna avvicinò una seggiola, e, sedutasi, trasse dal petto un rosario, e cominciò divotamente a recitare le sue preghiere, guardando di tanto in tanto la sua padrona. Ma quanto vide che essa a poco a poco chiudeva gli occhi, e s’addormentava, allora si sentì vincere anch’essa dal sonno; chinò il capo sul petto, e s’addormentò, russando lievemente. Ogni tanto però, spalancava gli occhi, alzava il capo, si guardava intorno, guardava la duchessa e ricadeva nel sonno.
L’uomo dalla maschera, uscito in quel modo misterioso, che donna Flora non aveva potuto chiarire, si era trovato in una specie di stretto e nero corridoio, pel quale appena poteva passare una persona; attraversato il quale, con la sicurezza di persona avvezza a percorrere quel luogo, anche fra le tenebre era riuscito in un’altra stanza a volta bassa, sotterranea, illuminata da una lanterna.
Un gruppo di uomini vi stava, ai cui piedi giaceva un involucro, una specie di sacco nero, dentro il quale si disegnava una forma indefinita.
Un dialogo rapido, a bassa voce, seguì fra l’uomo dalla maschera e uno di quegli uomini.
- Ebbene?
- È quel cavaliere...
- Oh!
- È venuto con la compagnia di Ciancimino... L’ha lasciato giù, ed è entrato solo... L’abbiamo preso.
- È ferito?
- No, svenuto. L’abbiamo imbavagliato e insaccato...
- Vi ha veduti?
- No. Appena entrato nella grotta gli abbiamo gittato il saccone addosso: egli ha creduto chi sa che cosa: ha mandato un grido, e ha perduto i sensi. Allora, soltanto per precauzione, l’abbiamo legato e imbavagliato...
Il bandito rifletté un minuto, e disse:
- Bisogna che egli non ritorni in sè, fino a domani. Stillategli un po’ d’oppio nella gola. Poi trasportatelo via.
- Dove?
- Andate a coricarlo dietro la porta della casa di Ciancimino. Subito.
In un baleno, il sacco fu aperto. Il cavaliere di Santa Croce giaceva ancora con gli occhi chiusi, pallido, inerte. Uno dei banditi gli tolse il bavaglio; un altro apertagli un po’ la bocca gli stillò dentro, da una boccetta, alcune gocce di un liquido nerastro.
Il cavaliere si riscosse, sospirò, aprì gli occhi, che pareva non percepissero nulla, li richiuse lentamente, mormorando:
- Oh Dio!...
Allora i banditi distesolo sul sacco nero, presi i quattro capi di esso, e fattane una specie di barella, lo alzarono di peso e uscirono.

Luigi Natoli: La principessa ladra. Romanzo storico siciliano. 
L'opera è la ricostruzione del romanzo originale pubblicato in dispense con la casa editrice La Gutemberg nel 1930. 
Pagine 756 - Prezzo di copertina € 24,00. 
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria. 

Luigi Natoli: Il Castellaccio di Monreale. Tratto da: La principessa ladra. Romanzo storico siciliano.

Era trascorsa oramai più di un’ora e mezza da quando avevano cominciato a cercare: e seguendo quella nuova traccia, si trovavano ora sul monte Caputo, sopra Monreale. In cima vedevano torreggiare il Castellaccio con le sue grandi torri laterali; mole solitaria, posta su quella sommità come per vegghiare su due valli. Pareva che le orme guidassero al Castellaccio: e non era improbabile che i banditi vi si fossero rifuggiati; giacché spesso i ladri ne avevano fatto una base delle loro operazioni, e spesso vi si erano ricoverati i perseguitati dalla giustizia. Ma questa riflessione impensierì il capitano. Se i banditi s’erano rifuggiati nel Castellaccio, occorrevano due reggimenti di granatieri per prenderli; perché da quella fortezza essi avrebbero potuto difendersi bravamente, e respingere qualunque assalto. Pensava ancora che quando meno se l’aspettavano, una salve di fucilate avrebbe accolto lui e i suoi compagni indifesi, e senza un riparo che li proteggesse. La prudenza consigliava di mandare innanzi un esploratore.
Il cavaliere di Santa Croce disse:
- Andrò io.
Erano forse a trecento passi dal Castellaccio. Il capitano e i suoi uomini si fermarono e, per essere meno visibili sedettero per terra, con gli schioppi su le cosce. Il cavaliere armatosi di due pistole, si avanzò fieramente risoluto. La mole del Castellaccio gli si ingrandiva dinanzi agli occhi, rivelando tutte le rughe e i solchi del tempo.
Era la prima volta che egli vedeva da presso quell’edificio, sul quale correvano leggende paurose; e credeva, come tutti, che fosse un’antica rocca dei Saraceni. Ora, avvicinandovisi, le favole di incantesimi, di stregonerie, di spiriti, che aveva udito raccontare da fanciullo, ritornavano nella sua memoria, e gli facevano apparire il Castellaccio ammantato in un velo misterioso. Più che il pericolo reale, cui poteva andare incontro, gli occupavano lo spirito quelle storielle superstiziose; ma sentiva troppo amor di sè per dar segno di debolezza.
Si avanzò risolutamente fin sotto le alte massicce mura, e si fermò a guardare: un’ampia breccia faceva da porta e lasciava vedere come una grande sala scoperchiata e ingombra di macerie. La luna vi entrava liberamente e illuminava la parete di fronte, sulla quale si proiettava obliquamente l’ombra della parete laterale. Grandi buchi neri si aprivano qua e là, simili ad enormi orbite vuote, cui ciocche di capperi facevan da sopraciglia. Delle fenditure lunghe e irregolari sembravan rughe mostruose o ferite spaventevoli. Il silenzio scendeva col chiarore lunare, e l’uno e l’altro pareva si scambiassero le sensazioni: ma di tanto in tanto si udiva un fruscio in alto, come di ali, e un’ombra attraversava la parete. Poi s’udì un miagolio. Parevano segni di una vita misteriosa, di esseri sconosciuti, che mettevano nel sangue dei brividi freddi. V’era infatti qualche cosa che agghiacciava in quella rovina solitaria della quale la luna rivelava l’orrore.
Il cavaliere di Santa Croce si rimproverò.
- Infine, – disse – è una sciocchezza avere paura dei gufi e delle civette!
Con le pistole in pugno, scavalcate alcune macerie penetrò in una vasta sala scoperta che pareva lo scheletro di una cappella.
Guardò intorno con stupore. Le cose che, vedute attraverso la breccia, gli eran sembrate mostruose, ora gli apparivano di proporzioni ridotte, e d’aspetto malinconico.
Un’altra breccia si apriva alla sua sinistra, oltre la quale si vedeva un’altra sala più buia.
Il cavaliere di Santa Croce vi si affacciò.
Qualcosa come un corridoio se ne dilungava. L’ombra vi era più fitta, impenetrabile, profonda come una voragine. Non si vedevano altri usci, fuor di quella nera bocca. Il cavaliere non esitò ad avvicinarvisi. Al barlume lunare potè vedere che non era un corridoio, ma una scala i cui gradini eran sepolti nel terriccio. Essa evidentemente conduceva in qualche sotterraneo.
Tese l’orecchio: non udì nessun rumore.
Discese un poco e si chinò per vedere fino in fondo; da un foro scendeva giù un raggio, che descriveva in terra un disco luminoso, al cui contrasto le tenebre apparivano più profonde.
Certo, pensava, la duchessa non poteva esser nascosta tra quelle rovine, non essendo presumibile che ve l’avessero lasciata sola, senza custodi. Qualche guardia avrebbe dovuto trovarcisi, che non l’avrebbe lasciato così agevolmente gironzolare.
Stette un po’ a guardare quel raggio di luna sotterra, che pareva moversi; e indi si voltò per rifare il cammino; ma non aveva ancor mosso il piede, che qualche cosa come una nube nera gli intercettò la luce, l’avvolse tutto quanto, lo strinse, gli imprigionò le braccia e le gambe, con una rapidità e una violenza tali, che egli non poté reagire, non poté servirsi delle pistole, si dibatté, si imbrogliò maggiormente in quella cappa tenace, cadde; e gli sembrò che un vuoto si facesse sotto di lui, che una forza ignota lo sollevasse, lo trasportasse.
Il terrore superstizioso lo assalì; egli non dubitò punto che gli spiriti dei quali aveva violato l’asilo lo sprofondassero nelle viscere della terra...


Luigi Natoli: La principessa ladra. Romanzo storico siciliano. 
L'opera è la ricostruzione del romanzo originale pubblicato in dispense con la casa editrice La Gutemberg nel 1930. 
Pagine 756 - Prezzo di copertina € 24,00. 
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria. 

giovedì 19 gennaio 2023

Luigi Natoli: Diritto, in mezzo alla stanza, aveva dinanzi a sé il misterioso capo dei banditi... Tratto da: La principessa ladra. Romanzo storico siciliano.

Donna Flora di Canavilla aprì gli occhi attoniti e si guardò intorno con uno stupore, sempre più grande.
Ella si trovava in una stanza originale; una specie di padiglione, tapezzato di una elegante stoffa di seta chiara, sparsa di mazzolini di fiori azzurri, che fermata a una certa altezza da un festone di legno dorato, si raccoglieva al centro in pieghe fitte e accurate, in modo da formare la volta. Una specie di rosone, formato della stessa stoffa al quale faceva da bottone un disco convesso di legno dorato chiudeva e tratteneva al centro le pieghe. Dal disco scendeva per una catenella una lampada di cristallo e ottone, che diffondeva intorno una dolce luce.
Degli spessi tappeti nei quali predominavano le tinte azzurre erano distesi per terra. Nessun vestigio di porta o di finestre. Un tavolino bianco con dorature, due seggioline, due poltrone col fusto bianco e oro e la tapezzeria uguale a quella delle pareti, un altro tavolinetto tondo su tre piedi, a due piani presso al letto; un braciere di ottone a un angolo, arredavano quel padiglione.
Ella era sopra un letto, ancora vestita, ma coperta di una coltre pesante; il letto era anch’esso originale. Non aveva spalliere; pareva un ampio e soffice sedile, ma i guanciali e le lenzuola erano di tela finissima e orlati di trine.
V’era in tutto un senso di proprietà, un gusto signorile, qualche cosa di raffinato e nel tempo stesso di misterioso, che facevano passare donna Flora da uno stupore all’altro. Qualcosa errava nell’aria, che le procurava un lieve e non sgradito stordimento: un odore vago e non ben distinto, di droghe sconosciute. Capì che dovevano essere profumi posti ad ardere nel braciere.
Ella era sola: ma dov’era? Come era venuta in quel luogo? Chi era il proprietario di quel palazzo; perché evidentemente non poteva trovarsi che in un palazzo.
Non udiva da vicino o lontano alcun rumore; eppure vide sopra una sedia, accuratamente ripiegato, il suo mantello color cuoio e sopra il tavolino la sua grande borsa di seta, dai lunghi nastri.
Per un istinto di curiosità scese dal letto, prese la borsa, e allargatane la bocca, vi cacciò le mani.
Una gioia mista a sbalordimento, come dinanzi ad un fatto incomprensibile, si diffuse sul suo volto. C’erano dentro la borsa tutte le gioie che i banditi le avevano tolto. Chi le aveva riposte, e con senso delicato gliele aveva tacitamente fatte trovare a portata di mano, sottraendosi come pareva, ai ringraziamenti?
La sua fantasia ondeggiò fra due idee opposte che avevano in comune soltanto il sequestro della sua persona. Era stata ella catturata da banditi a scopo di ricatto? o era stata rapita da un ignoto amante? Allora cominciò a ricercare tra la folla dei suoi adoratori, se ve n’era alcuno capace di compiere un gesto così audace e romanzesco; ed esaminava uno dopo l’altro i giovani dell’aristocrazia, scapoli o ammogliati, qualcuno dei quali, in verità, violento e prepotente avrebbe potuto commettere quell’aggressione, ma non sarebbe stato capace della discrezione di cui aveva dato prova il capo dei banditi. E la taglia non corrispondeva.
Cominciò a scartare l’idea di un ignoto amante, sulla quale, come donna, e per vanità, si era fermata più lungamente. Rimaneva l’altra più volgare e brutale, che le metteva un certo sgomento: ma...
Ma un bandito le avrebbe mai restituito le gioie?
Seduta sulla sponda del letto, guardava intorno per scoprire qualche cosa, un indizio qualunque che la mettesse in grado di penetrare il mistero che l’avvolgeva; e fermò allora l’attenzione, non senza paura, sulla mancanza di porte e di finestre.
La duchessa era rimasta con la bocca aperta, sopraffatta da una specie di sbalordimento superstizioso.
Diritto, in mezzo alla stanza, sotto la luce della lampada, aveva dinanzi a sé il misterioso capo dei banditi, col volto coperto ancora dalla maschera.
- Ho sentito che vostra Eccellenza desiderava parlarmi e non ho voluto indugiare. Eccomi.
Donna Flora lo guardava con un senso di stupore e di sgomento, e nel contempo di curiosità.
Era un uomo di statura media, ben tagliato, col petto largo, i fianchi stretti, le gambe nervose. La corta giacchetta di panno turchino coi bottoni di metallo bianco, disegnava bene quel corpo, che aveva solidità e sveltezza, forza e agilità e soprattutto una eleganza disinvolta, che non era certamente da contadino.
Le sue mani e i suoi piedi erano aristocratici.
Sebbene la maschera gli coprisse metà del volto, il mento perfettamente raso e la bocca sottile e ironica avevano qualche cosa, come un segno di superiorità, di finezza.
La duchessa intuì che sotto le vesti e gli atti di un bandito si nascondeva un uomo di natali elevati. Quella maschera, che certamente non portava sempre, serviva per nascondere a lei fattezze forse note. Queste riflessioni furono più che sufficienti per acuire la curiosità della donna.
- Signore, – gli disse non senza una commozione, che dava alla sua voce un tono suggestivo. – Signore, non so ancora le ragioni che vi abbiano spinto a commettere contro di me una orribile violenza...
- Domando perdono, signora duchessa se devo contraddirla. Vostra eccellenza può affermare che da parte mia e de’ miei uomini abbia sofferto alcuna mancanza di riguardi dovuti a una donna bella e di nobiltà pari alla sua?
- Non vi sembra dunque una violenza l’avermi ucciso un cavallo e un campiere, e impedito il mio cammino, e l’avermi trasportata in questa specie di gabbia?...
- Il che, vostra Eccellenza ne convenga, è stato fatto con tutto il rispetto e con tutte le delicatezze possibili... Vostra Eccellenza non ha neppure sentito di essere stata trasportata in questa gabbia, che non è poi un orrore, per quanto indegna di ospitare una dama della vostra qualità.
Queste parole avevano un lieve tono canzonatorio, che punse la duchessa. La commozione era già vinta, ed ella aveva ripreso la sua altezzosità.


Luigi Natoli: La principessa ladra. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine Settecento. 
Pagine 756 - Prezzo di copertina € 24,00.
Copertina di Niccolò Pizzorno
L'opera è la ricostruzione del romanzo originale pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1930. 
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria. 



Luigi Natoli: Il rapimento della duchessa di Canavilla. Tratto da: La principessa ladra. Romanzo storico siciliano

Altri colpi vicinissimi le squarciarono l’udito: ella vide dinanzi ai suoi occhi il fiammeggiar micidiale, e le parve di esser colpita; ma quasi al tempo stesso la curiosità istintiva di conoscere il pericolo la spinse a guardar fuori dallo sportello aperto.
Vide allora il cavaliere dibattersi fra le braccia di due robusti banditi, armati di pugnali; e di altri banditi circondare la lettiga; accanto alla quale non vi erano più i lettighieri.
Un bandito, che all’aspetto meno miserabile pareva un capo, avvicinatosi a lei, e presala per un braccio, le impose:
- Scendi!...
E aggiunse una mala parola ingiuriosa, che fece salire una fiamma di rossore sul volto della donna.
Ella dovette scendere, tremando, presa da nuovi e indefiniti terrori di cose ignote che non osava immaginare. Vide più in là, rantolanti nel proprio sangue, rovesciati per terra, un campiere e il suo cavallo; più oltre immobile nella rigidità della morte un altro campiere; uno dei lettighieri prostrato con la faccia nella polvere, guardato a vista da un bandito, che gli teneva un piede sul dorso; l’altro era rovesciato esangue sotto le zampe delle due mule. Più indietro, in disparte, un uomo a cavallo guardava in silenzio.
- Fuori i denari e le gioie! – gridavano i banditi.
Il cavaliere urlava:
- Assassini! vili!
Cercava di liberarsi dai banditi, che gli toglievano gli orologi, la borsetta di seta a margheritine; gli strappavano i vestiti, percotendolo. Egli aveva tirato due colpi con le sue pistole, senza coglierne alcuno; l’avevano disarmato, e l’avrebbero ammazzato, se un fischio acuto e singolare non li avesse distolti da quella ferocia. Essi atterrarono il cavaliere, lo legarono, lo imbavagliarono. La donna svenne.
Allora l’uomo a cavallo, che fino allora era rimasto in disparte si avvicinò; i banditi si scostarono rispettosamente, mostrandogli il bottino raccolto; ma egli, senza neppure dare un’occhiata all’oro luccicante nell’ultima luce crepuscolare, si fermò a guardare la dama svenuta. Poi disse alcune parole sottovoce, e allora due banditi sollevarono la giovane donna, e la adagiarono dentro la lettiga, come avrebbero fatto d’una bambina.
Il cavaliere, in terra, impotente a moversi, a gridare, agitandosi e sbuffando, seguiva con lo sguardo i banditi, non sapendo che cosa volessero fare, e sospettando che quella gentilezza o generosità brigantesca celasse qualche tranello. Guardava l’uomo a cavallo, che evidentemente era il capo, aspettando che si voltasse per poterlo riconoscere in seguito, se lo lasciavano vivo, come sperava. Alla taglia svelta, al garbo col quale stava in arcione, al gesto breve, imperioso, non sembrava persona volgare, se bene vestisse alla maniera della gente di campagna, con la giacchetta turchina, corta alla vita, e la berretta nera piegata sull’orecchio.
Quando la donna fu posta dentro la lettiga, il capo dei banditi si voltò. Il cavaliere aguzzò lo sguardo per fissarne bene le fattezze; ma con suo grande stupore vide che il viso del bandito era coperto da una mascheretta nera.
Il bandito gli si avvicinò, lo guardò e un sorriso gli errò sulla bocca sottile e ironica:
- Oh!... Il cavaliere di Santa Croce!... Mi rincresce, signor cavaliere, che quei villani vi abbiano disturbato e abbiano disturbato la nobile dama che era in vostra compagnia... la duchessa di Canavilla se non sbaglio...
Il cavaliere di Santa Croce passava dalla meraviglia alla collera; impotente a moversi, a parlare, si rodeva dentro; avrebbe voluto da quel mento e da quella bocca che soli rimanevano scoperti, ricostruire un volto noto; cercando di ritrovare in quelli un qualche segno particolare, una nota, una traccia che avesse potuto metterlo sulla via della ricostruzione. Invano! Fermò l’attenzione sulla voce. Veramente la voce con cui gli parlava quel bandito misterioso era alterata; ma il cavaliere di Santa Croce si forzava di riconoscere il timbro naturale; e adunava nel suo cervello tutte le memorie auditive, per ritrovare una voce che rassomigliasse a quella che egli riteneva fosse la voce naturale del bandito. Invano!
Ah potersi liberare da quei lacci, balzare in piedi, strappare quella maschera, guardare negli occhi quel bandito, che aveva le mani piccole e aristocratiche e la taglia elegante!
Il cavaliere di Santa Croce era un uomo di un coraggio straordinario; sotto l’aspetto di un cavaliere servente raffinato e dedicato alle frivolezze del gran mondo, celava un cuore audace e talvolta anche inaccessibile alla prudenza più elementare. La vista dei banditi non lo aveva sgomentato; li aveva affrontati, certo di soccombere; ma sarebbe stato al postutto un bel gesto morire valorosamente come un eroico cavaliere antico, sotto gli occhi e in difesa della dama amata.
Il suo grande dolore era appunto di esser così legato, impotente ad agire. Il dolore gli gonfiava il petto urlando, come il vento impetuoso dentro le vele di una nave.
La dama giaceva ancora svenuta sui cuscini della lettiga; ma nessuno avrebbe potuto giurare che fosse veramente ancora priva di sensi. Forse un occhio scettico, come attraverso i buchi della maschera, pareva quello del capo dei banditi che la contemplava, avrebbe potuto osservare che la immobilità del corpo e la ritmica tranquillità del respiro non eran quelle di una persona che avesse smarrito i sentimenti.
A un cenno del misterioso bandito la lettiga partì, svoltando l’angolo del Passo di Renda, alla volta di Monreale.


Luigi Natoli: La principessa ladra. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine Settecento. L'opera è la ricostruzione del romanzo originale pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1930.
Pagine 756 - Prezzo di copertina € 24,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
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lunedì 16 gennaio 2023

Luigi Natoli: La principessa ladra. Così ha inizio il romanzo...

Una grande lettiga di cuoio nero sormontata d’un fiocco rosso, dondolandosi sul dorso di due robuste mule, che al ritmo del passo scotevano le sonagliere, percorreva la strada, che, salendo pei monti, da Borgetto, conduce a Monreale. Presso l’altura di Renda la strada, qualche volta compresa fra lievi poggi or erbosi or nudi, tal’altra aperta da un lato, godeva in quel punto una trista rinomanza; offrendo un campo strategico ai cavalieri delle strade maestre, o, come erano chiamati nelle sentenze «scorridori di campagne». Il passo di Renda era uno dei più pericolosi ad attraversare. La topografia, la solitudine, la impossibilità di aver soccorsi, la trista rinomanza, le leggende che vi correvano intorno, spaventavano i viaggiatori, ricchi o poveri, che eran costretti ad attraversarlo.
Pure il tratto fra Palermo e Partinico era abbastanza frequentato, pel traffico dei vini: e una elementare pratica di governo avrebbe dovuto consigliare di tenervi quasi in permanenza una compagnia d’arme, quella specialmente della vicina Monreale; ma le compagnie d’armi ordinariamente, e per un’abitudine che sembra connaturata in tutte le polizie, non si risolvevano a galoppare per le strade maestre, che quando le aggressioni e le rapine erano consumate, e le bande dei ladri sparite.
La lettiga saliva al passo per guadagnare l’altura. Sebbene i lettighieri non fossero vestiti in livrea, non era difficile scorgere che quella era una lettiga signorile. Bastavano a indicarlo quattro «campieri» armati di schioppo, che seguivano a cavallo.
I due lettighieri, non molto sicuri, lanciavano delle occhiate furtive a destra e a sinistra temendo di veder da un momento all’altro, da qualche alto cespuglio o di dietro un grosso macigno, balzare i banditi.
Anche i «campieri» guardavano intorno tenendo gli schioppi sul braccio, come per trovarsi pronti a respingere un assalto; ma la strada appariva solitaria, e non un segno di persona viva; non quell’ignoto non so che rivelatore della vita. Le rocce, nude, aride, si distendevano per la china, uniformi e desolate, sotto il sole che andava declinando alle loro spalle.Era la metà di dicembre del 1797; un dicembre asciutto, senza nubi, simile a una anticipazione della primavera. Il tramonto sfolgorava in tutta la sua ardente bellezza. La luce rossa come d’un incendio colorava le cose; ma le ombre sembravano d’un grigio scolorito e freddo.
Forse per ammirare la bellezza del tramonto o per guardare intorno, una graziosa testa avvolta in una cuffia si affacciò fuori dallo sportello, e dopo un minuto rientrò. Intorno era un alto silenzio, interrotto dal calpestìo di sei animali, dal tintinnìo dei sonagli e dal tremolìo dei vetri; suoni e rumori che si confondevano tutti insieme in un rumor solo, che pareva infastidisse la graziosa signora che si era affacciata allo sportello. Era una giovane di poco più che venti anni, non perfettamente bella, ma avvenente, col suo nasetto petulante, gli occhi grandi e neri, il mento ovale, un grosso neo su la rosea guancia, quasi ad un pollice dell’angolo della bocca rosea e appetitosa come una fragola. Un’aria un po’ impertinente e affascinante.
I capelli pettinati alti, con la «montera» come dicevano i parrucchieri del tempo, e coi lunghi riccioli spioventi dalla tempia intorno al collo, incipriati accuratamente, eran coperti di un’ampia cuffia ornata di trine, e legata sotto il mento da larghe bende, che incorniciavano l’ovale del volto. Il corpo era ravvolto in un largo mantello di panno color cuoio, con dei baveri sovrapposti l’uno all’altro, le mani inguantate trattenevano sul petto i lembi del mantello, come se ella temesse il freddo. Ma freddo non ce n’era; e nella lettiga ci si stava bene. Una pelle di capra nera teneva caldi i piedini irrequieti, e i vetri chiusi non lasciavano penetrare un filo d’aria.
La giovane donna non era sola. Sul sedile dinnanzi a lei sedeva un giovane signore, in tenuta da viaggio; con grandi stivali alla scudiera tirati fino alla coscia; un pastrano a baveri, il nicchio o cappello a tre punte disadorno di piume e di galloni. Era un giovane nè bello nè brutto; piuttosto simpatico; bruno di carnagione, un po’ femineo nel viso accuratamente sbarbato. Accanto teneva due pistole e lo spadino dalla impugnatura semplice di ottone dorato.
Che fossero signori si vedeva bene alla finezza dell’aspetto e dei modi...

Luigi Natoli: La principessa ladra. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine Settecento. L'opera è la fedele ricostruzione del romanzo originale pubblicato in dispense con la casa editrice La Gutemberg nel 1930.
Pagine 756 - Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno 
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
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giovedì 12 gennaio 2023

Luigi Natoli: All'alba del 12 gennaio poca gente disarmata uscì curiosa... Tratto da: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo.

All’alba del 12 poca gente disarmata uscì curiosa per le strade; un certo Vincenzo Buscemi, vedendosi il solo armato, credette ad un tradimento e tirò la prima fucilata. Sopraggiunsero altri nella piazza della Fieravecchia e fra essi Giuseppe La Masa armato, venuto da due giorni nascostamente da Firenze, che cominciò ad esortare i convenuti. Giovane, di bell’aspetto, con una pronuncia toscaneggiante, ignoto a tutti, fu creduto uno dei capi venuto dal Continente. Allora il giovane avvocato Paolo Paternostro salì sulla fontana che orna la piazza, ed arringò la folla, che si veniva facendo. Si gridò Viva Pio IX! Viva l’Italia! Viva la Sicilia! Il La Masa scrisse un breve proclama, in nome di un Comitato provvisorio della Piazza d’armi della Fieravecchia e improvvisò una bandiera legando un cencio bianco, uno rosso e uno verde in una canna. Ma Santa Astorina, moglie di Pasquale Miloro, uno degli accorsi, portò una bandiera e coccarde tricolori preparate dal marito nella notte. Si cominciarono a sonare le campane a stormo. Gli insorti erano qualche centinaio e si divisero a squadre; avvenne uno scontro contro la cavalleria, e vi trovò la morte Pietro Omodei, il primo cittadino caduto. Se il Comando non avesse ritirato le truppe, avrebbe potuto troncare i pochi insorti, ma memore del 1820, forse temendo imboscate, non osò prendere una vigorosa offensiva, e segnò la sua condanna.
Un vero Comitato provvisorio della Piazza d’Armi, fu costituito in piazza Fieravecchia coi nomi del La Masa, di Giuseppe Oddo-Barone, barone Bivona, di Tommaso Santoro, di Salvatore Porcelli, di Damiano Lo Cascio, di Sebastiano Corteggiani, di Giulio Ascanio Enea, di Mario Palizzolo, di Pasquale Bruno, dei tre fratelli Cianciolo, di Giacinto Carini, di Rosario Bagnasco, di Leonardo Di Carlo, del principe di Villafiorita, di Giovanni Faija, di Rosalino Pilo, dei fratelli D’Ondes; ai quali poi si aggiunsero Salvatore Castiglia, Filippo Napoli, Ignazio Calona, Vincenzo Fuxa, il principe di Grammonte e qualche altro.
Il giorno dopo cominciarono ad arrivare le squadre dei dintorni, e si ripresero i combattimenti per espugnare i Commissariati e i posti avanzati, come quelli delle Finanze e della vicina gendarmeria. Intanto, essendo necessario provvedere ai bisogni della città e della rivoluzione, fu convocata, dal pretore marchese di Spedalotto, la municipalità con l’intervento dei membri del Comitato della Fieravecchia e di altri cittadini, e si convenne la costituzione di un grande Comitato, diviso in quattro Comitati minori, uno per la guerra e la sicurezza, presieduto dal Principe di Pantelleria, il secondo per l’annona, presieduto dal Pretore, il terzo per raccogliere le somme, presieduto dal marchese di Rudinì, il quarto per le notizie, la stampa, la propaganda, presieduto da Ruggero Settimo, il quale fu posto anche a capo del Comitato generale, con Mariano Stabile segretario. Si istituirono inoltre ospedali pei feriti nella Casa Professa dei Gesuiti e nei conventi di S. Domenico e Sant’Anna; il fiore dei medici offerse l’opera sua, gratuitamente. Due Commissioni, delle quali una di donne, attesero alla beneficenza.
Le truppe regie, al comando del maresciallo Vial, sommavano a cinquemila uomini.
Il 15 intanto, su otto legni da guerra, giungevano altri cinquemila e più uomini sotto gli ordini del conte d’Aquila, fratello del Re, e del maresciallo De Sauget, che sbarcati al Molo cercarono di spingere collegamenti col Palazzo reale, ma ne furono impediti dagli insorti. Nè altri tentativi, sebbene appoggiati dal bombardamento e dalle artiglierie, ebbero miglior fortuna. Le bombe recavano danni anche agli edifici privati; il 17 una di esse fece divampare un incendio nel Monte di Pietà di S. Rosalia, consumando i pegni della povera gente per oltre mezzo milione di nostre lire: onde i Consoli esteri, che avevano cercato invano di parlare col Luogotenente Generale a rischio della vita, protestarono con pubblico documento.
Intanto gl’insorti si erano impadroniti di alcuni Commissariati, e immobilizzavano le truppe del conte d’Aquila, che lasciato il comando al De Sauget, se ne tornava a Napoli per riferire. Il 18, il generale Di Maio invitava il Pretore, marchese di Spedalotto, ad un abboccamento, per evitare ulteriore spargimento di sangue. Il Pretore rispondeva sdegnosamente: « La città bombardata da due giorni, incendiata in un luogo che interessa la povera gente, io assalito a fucilate dai soldati, mentre col console d’Austria, scortato da una bandiera parlamentare mi ritiravo, i Consoli esteri ricevuti a colpi di fucile quando, preceduti da due bandiere bianche si dirigevano al Palazzo Reale, monaci inermi assassinati nel loro convento dai soldati, mentre il popolo rispetta, nutre e guarda da fratelli tutti i soldati presi prigionieri, questo è lo stato attuale del paese. Un Comitato Generale di pubblica difesa esiste; V. E. se vuole, potrà dirigere allo stesso le sue proposizioni».
Di nuovo il 19 il Di Maio scriveva al Pretore, domandando quali fossero i desideri del popolo, che egli avrebbe subito fatto conoscere al Re, interessandolo frattanto per una sospensione d’armi. Il Pretore, trasmessa la lettera al Comitato e avutane risposta, la comunicava, esprimendo essa l’universale pensiero: «Il popolo coraggiosamente insorto non poserà le armi, e non sospenderà le ostilità, se non quando la Sicilia, riunita in general Parlamento in Palermo, adatterà ai tempi quella sua Costituzione che, giurata dai suoi Re, riconosciuta da tutte le Potenze, non si è mai osato di togliere apertamente a questa Isola. Senza di ciò qualunque trattativa è inutile». Ancora il Luogotenente Generale spediva al Pretore quattro decreti del re Ferdinando in data del 18: il Re nominava il conte d’Aquila luogotenente generale, istituiva un Consiglio di Ministri , e richiamava in vigore i decreti del dicembre 1816. Ma i decreti erano respinti, e respinte le proposte del generale De Sauget, al quale si rispondeva che era ben noto il senso delle disposizioni date dal Re, che il popolo «con la sua sublime logica» aveva «inappellabilmente giudicate». Si ripresero con maggior vigore i combattimenti. Il Comando Generale senza viveri, senza ospedali, senza mezzi, chiuso nella piazza del Palazzo, si vide costretto ad abbandonare la città e mettere in salvo le truppe. E nella notte del 26 il Di Maio, il comandante generale Vial e gli altri generali, precedendo le truppe, fuggirono per imbarcarsi nelle spiagge orientali. Nella marcia le truppe si vendicarono della sconfitta incendiando villaggi e assassinando; ma inseguite dai contadini, la marcia si mutò in fuga. Ma prima di andarsene, il Governo borbonico apriva le porte delle carceri e riempiva le città di migliaia di malfattori.
Messina non restava inerte...


Luigi Natoli: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo. Il volume è la trascrizione dell'opera originale pubblicata con la casa editrice Ciuni nel 1935.
Pagine 509 - Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno. 
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
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Luigi Natoli: Donna Santa, la dispensatrice delle coccarde all'alba del 12 gennaio... Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860

Poche donne erano note come “donna Santuzza”. Ella doveva la sua notorietà a tre cose: la sua bellezza, la sua eleganza semplice ma originale, la sua bottega di guanti.
Non v'erano in Palermo guanti migliori di quelli di “donna Santa”, nè v'era chi sapesse increspare o stendere con maggior gusto la spoglia di quei graziosi ombrellini che usavano allora, simili a ninnoli. La sua fabbrica aveva venti tagliatori di guanti; le cucitrici erano un centinaio. Aveva la bottega in Via Cintori­nai, in sul principio, a destra di chi vi entra dalla via detta oggi di Vittorio Emanuele; e questa bottega era sempre affollata. Tutta la nobiltà di Palermo, ed anche quella dell'isola si serviva di guanti, ombrellini, e ven­tagli, da “donna Santa”.
Ella era alta e slanciata. I capelli bruni, copiosi, spartiti sulla fronte, raccolti intorno alle tempie e sugli orecchi, le incorniciavano il volto ovale e bianco.
Il naso piccolo, appena appena arcuato, gli occhi grandi, neri, sereni, la bocca un po' sottile, piccola, fiorita d'un tenue sorriso.
Nel portamento un'aria giunonica, consapevole, quale apparisce ancora da una fotografia di quando era nella piena maturità della vita e della bellezza impe­riosa e magnifica.
Donna Santa, il rudere di questa bellezza, la dispensatrice delle coccarde all'alba del 12 gennaio, questa unica e sola superstite del manipolo che iniziò la rivoluzione famosa, que­sta figura eroica e poetica, della giornata memoranda, che con le belle mani statuarie diffondeva il simbolo della libertà, e affrontava le fucilate; era ancor viva quando nel 1910, io la scopersi nella casetta dove viveva ritirata e silenziosa. Aveva allora novantasei anni ed era svelta; sebbene un po' curva: e malgrado le rughe e solcassero la fronte, gli occhi avevano ancora l'antico lampo; la mente era lucida, e i ricordi vivaci. Nella soli­tudine in cui viveva dimenticata, sopravissuta alla sua storia, serbava gli entusiasmi giovanili nell'animo rimas­to ancora rivoluzionario del '48.
Io andai a trovarla nella sua casetta, al numero 33 della via Volturno. Era seduta in un’ampia poltrona; e appena mi vide entrare, si alzò e mi porse le mani affabilmente. Io volevo udire dalla sua bocca l’episodio del 12 gennaio: ma prima di parlare, ella andò a prendere da un cassetto un libro, lo aprì e me lo porse.
- Legga, legga! – mi disse.
Il libro era la raccolta di scritture, proclami, memorie della rivoluzione, stampati nel 1848; e la pagina mostratami conteneva un cenno encomiativo di Santa Miloro, additata alla pubblica ammirazione, e riconosciuta benemerita della patria.
- Vede chi son io? – aggiunse poco dopo, con un certo tono di orgoglio nel quale c’era anche un po’ di vanità. – Io sono stata una di coloro che liberarono la patria dalla tirannia!...
Ella non nominava diversamente il governo borbonico, e non diceva mai “Ferdinando, il re Borbone” o simile; ma il “tiranno”: la terminologia del ’48 non si era cancellata dalla sua memoria.
- In casa mia – seguitò – si cospirava; ci venivano Paolo Paternostro, Rosalino Pilo, tanti altri. Si fabbricavano cartucce; io apparecchiavo coccarde tricolori. Dapprima gli amici di mio marito diffidavano di me; “Donna Santa – dicevano – è giovane ed è donna, potrebbe tradirci”. Ma mio marito sapeva di potersi fidare, e li rassicurò.
All'alba del 12 gennaio mio marito uscì co’ suoi fratelli e con suo padre, mio suocero; erano tre fratelli: Pasquale, Antonino e Giorgio. Uscirono armati, perchè doveva scoppiare la rivoluzione. Io avevo un paniere pieno di coccarde, e con tre nastri, uno bianco, uno rosso e uno verde, avevo improvvisato una lunga sciarpa. In quei giorni mi ero fatto un vestito di lana, a quadri con una sopraveste, come era di moda; quel vestito mi stava una pittura.... lo vestivo con molta semplicità; gli abiti me li facevo da me; pure debbo dire che face­vano voltare la testa, e molte signore, anche dell'ari­stocrazia, mi domandavano sul serio, se li facevo venire da Parigi....
Interrompendosi con questa parentesi, il suo volto si illuminava della dolce vanità del passato, e la fem­mina che aveva suscitato fremiti di desiderio con l’im­peto della bellezza, riviveva nella vecchia sepolta nella ampia poltrona e col capo avvolto in un fazzoletto scuro.
- Dunque – riprese – come le dicevo, udii le pri­me fucilate. Pensando che mio marito e i miei cognati erano fuori e nel pericolo, e non vedendo muovere nes­suno del vicinato, non potei resistere. Indossai il mio bel vestito, mi cinsi con la sciarpa tricolore, presi il paniere delle coccarde, ed uscii. Abitavo allora in piazza Garraffello. Sulle porte, ai balconi la gente si affac­ciava timida, sospettosa, irresoluta: non si sapeva come volgessero le cose.... Si sparse la notizia che qualcuno era stato ucciso. Io allora cominciai a rampognarli: “Su! Che fate? All’armi!... i vostri fratelli combattono; correte ad aiutarli!...Viva l'Italia! viva la libertà!...”. E davo coccarde, e andavo innanzi....
Mentre ella parlava, io me la raffiguravo alta e bella e fiera, nell'incanto della donna di trent'anni, col suo bel vestito a quadri, con la sciarpa tricolore; tra la folla stupita, commossa dallo spettacolo di audacia e di beltà; me la raffiguravo agitatrice, non torbida come una virago, come una amazzone antica, e neppure come una demoiselle Théroigne armata di picca, e coi bruni riccioli sfuggenti di sotto all'elmo: ella rimaneva donna, con tutti i fascini della muliebrità, anche in quei mo­menti pericolosi e tra lo scoppiar della guerra...


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento. Il volume comprende: 
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931)
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Pagine 544 - Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile in tutti gli store di vendita online e in libreria. 

Luigi Natoli: Quel 12 gennaio 1848... - Tratto da Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860

Il mese di gennaio 1848 entrava carico di foschi presentimenti; le agitazioni crescevano, le stampe rivoluzionarie si moltiplicavano; le spie riferivano al Prefetto di polizia che pel giorno 12 tutti sarebbero usciti con coccarde tricolori. Il luogotenente generale Di Maio chiudeva l’Università, rimandando nei paesi natali gli studenti. Ma la mattina del 9 apparvero sui muri, e furon distribuiti e spediti in gran numero nella provincia, foglietti a stampa che contenevano questo memorabile proclama:
“Siciliani, il tempo delle preghiere inutilmente passò. Inutili le proteste, le suppliche, le pacifiche dimostrazioni, Ferdinando tutto ha spezzato; e noi, popolo nato libero, ridotto fra le catene nella miseria, tarderemo ancora a riconquistare i legittimi diritti? – Alle armi, figli della Sicilia! la forza di tutti è onnipotente: l’unirsi dei popoli è la caduta dei re. – Il giorno 12 gennaio 1848 segnerà l’epopea gloriosa della universale rigenerazione. Palermo accoglierà con trasporto quei Siciliani armati che si presenteranno al sostegno della causa comune, a stabilire riforme e istituzioni conformi al progresso del secolo, volute dall’Europa, dall’Italia, da Pio. – Unione, ordine, subordinazione ai capi, rispetto a tutte le autorità e che il furto si dichiari tradimento alla causa della patria, e come tale sia punito. – Chi sarà mancante di mezzi sarà provveduto. – Con giusti principi, il cielo seconderà la giustissima impresa. – Siciliani, alle armi!”
Questa sfida, che si credette lanciata da un Comitato e stampata dal tipografo Giliberti, era stata ideata e scritta da Francesco Bagnasco, causidico, di sua iniziativa.
Lo stesso giorno si diffondeva un Ultimo avvertimento al tiranno, e con termini energici si invitavano i Siciliani alle armi, pel 12 gennaio. Il Luogotenente Generale allora si scosse, e ordinò arresti; la notte stessa del 9 la polizia arrestò e fece chiudere nel Castello undici cittadini, tra i quali erano Francesco Ferrara, Francesco Paolo Perez ed Emerico Amari. Egli credeva avere posto le mani sui capi; ma a disingannarlo, il domani 10 apparve una dichiarazione firmata da un Comitato direttore che confermando la sfida, dava istruzioni alle squadre cittadine e delle campagne, prometteva capi ed armi, e metteva in guardia i cittadini contro le manovre della polizia.
All’alba del 12 poca gente disarmata uscì curiosa per le strade; un certo Vincenzo Buscemi, vedendosi il solo armato, credette ad un tradimento, e tirò la prima fucilata.
Sopraggiunsero altri nella piazza della Fieravecchia e fra essi Giuseppe La Masa armato, venuto da due giorni nascostamente da Firenze, che cominciò ad esortare i convenuti. Giovane, di bell’aspetto, con una pronuncia toscaneggiante, ignoto a tutti, fu creduto uno dei capi venuto dal Continente. Allora il giovane avvocato Paolo Paternostro, salì sulla fontana che orna la piazza, ed arringò la folla che si veniva facendo. Si gridò Viva Pio IX! Viva l’Italia! Viva la Sicilia! Il La Masa scrisse un breve proclama, in nome di un Comitato provvisorio della Piazza d’armi della Fieravecchia, e improvvisò una bandiera legando un cencio bianco uno rosso e uno verde a una canna. Ma Santa Astorina, moglie di Pasquale Miloro, uno degli accorsi, portò una bandiera e coccarde tricolori preparate dal marito nella notte. Si cominciarono a sonare le campane a stormo. Gli insorti erano qualche centinaio e si divisero a squadre; avvenne uno scontro contro la cavalleria, e vi trovò la morte Pietro Omodei, il primo cittadino caduto. Se il Comando non avesse ritirato le truppe, avrebbe potuto troncare i pochi insorti, ma memore del 1820, forse temendo imboscate, non osò prendere una vigorosa offensiva, e segnò la sua condanna.
Un vero Comitato provvisorio della Piazza d’Armi, fu costituito in piazza Fieravecchia coi nomi del La Masa, di Giuseppe Oddo-Barone, barone Bivona, di Tommaso Santoro, di Salvatore Porcelli, di Damiano Lo Cascio, di Sebastiano Corteggiani, di Giulio Ascanio Enea, di Mario Palizzolo, di Pasquale Bruno, dei tre fratelli Cianciolo, di Giacinto Carini, di Rosario Bagnasco, di Leonardo Di Carlo, del principe di Villafiorita, di Giovanni Faija, di Rosolino Pilo, dei fratelli d’Ondes; ai quali poi si aggiunsero Salvatore Castiglia, Filippo Napoli, Ignazio Calona, Vincenzo Fuxa, il principe di Grammonte e qualche altro.
Il giorno dopo cominciarono ad arrivare le squadre dei dintorni, e si ripresero i combattimenti per espugnare i Commissariati e i posti avanzati, come quelli delle Finanze e della vicina gendarmeria. Intanto, essendo necessario provvedere ai bisogni della città e della rivoluzione, fu convocata, dal pretore marchese di Spedalotto, la municipalità con l’intervento dei membri del Comitato della Fieravecchia e di altri cittadini, e si convenne la costituzione di un grande Comitato, diviso in quattro Comitati minori, uno per la guerra e la sicurezza, presieduto dal Principe di Pantelleria, il secondo per l’annona, presieduto dal Pretore, il terzo per raccogliere le somme, presieduto dal marchese di Rudinì, il quarto per le notizie, la stampa, la propaganda, presieduto da Ruggero Settimo, il quale fu posto anche a capo del Comitato generale, con Mariano Stabile segretario. Si istituirono inoltre ospedali pei feriti nella Casa Professa dei Gesuiti e nei conventi di S. Domenico e Sant’Anna; il fiore dei medici offerse l’opera sua, gratuitamente. Due Commissioni, delle quali una di donne, attesero alla beneficenza...


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento. 
Il volume comprende:
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni 1935 pubblicata da I Buoni Cugini editori (2020)
La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931)
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Pagine 544 - Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria.