Erice sorgeva in cima ad un monte isolato sopra
Drepano, e il tempio famoso era visibile da ogni parte, poiché spuntava oltre
la muraglia che lo circondava, eretta o rafforzata dai Romani dopo la conquista
della città. Già Afrodite aveva mutato il nome greco in quello latino di
Venere; ma i Sicilioti e i Siculi ellenizzati continuavano a chiamarla
Afrodite.
Il nome primitivo datole dai naturali dell’isola
(giacchè si tratta di una divinità sicana) è ignoto. Narra Virgilio, nel V
libro del poema, che Enea, istituendo le feste pel compleanno della morte di
Anchise, suo padre, avesse eretto sul monte un tempio alla dea Venere.
Essa fu madre di Erice, figlio di Bute; il quale
Erice fu ucciso da Ercole, e sepolto nel monte, che da lui prese il nome. In
enzione più poetica che altro.
Il culto di Afrodite Ericina, o Venere, crebbe con
gli anni, e il suo tempio, mèta di pellegrinaggi, era il più ricco del mondo e
rivaleggiava con quello di Pafo. Forse a questo valeva molto la presenza delle
jerodule, che avevano in custodia il tempio. Le jerodule, tutte giovani e
belle, erano ad un tempo sacerdotesse ed esercitavano la sacra prostituzione;
il rito era antico, e nessuno sapeva quando fosse cominciato. Non uscivano mai
fuor dalle mura che circondavano il tempio, se non quando erano vecchie;
avevano case, e vivevano di comune accordo. Diciassette città per ordine dei
Romani provvedevano il tempio di quanto occorreva, e duecento soldati
vigilavano alla sua sicurezza.
Quando la bireme di Cleone ancorò nel porto di
Drepano, s’aspettava il ritorno delle colombe sacre ad Afrodite. Ogni anno
miriadi di colombe fra i canti delle jerodule prendevano il volo per la Libia,
e dopo nove giorni tornavano. Erano precedute da una colomba rossa, nella quale
si intendeva impersonata la Dea. Il ritorno era salutato da canti gioiosi e da
riti.
Lungo la strada che dalla pianura saliva per
l’erta, una folla d’uomini, di donne, di ragazzi, si recava ad Erice, che
sorgeva in disparte del tempio, e più in basso; e dalla acconciatura dei
capelli, e dal colore preferito delle vesti si distinguevano fra le altre
abitanti di Lilibeo, quelle di Segesta, quelle di Selinunte. Erano liete e
ciarlavano.
Era l’alba: il cielo, imbiancatosi all’orizzonte,
era sgombro di nuvole: solo qualche lieve sfilacciatura si andava colorando in
roseo. Via via che i pellegrini ascendevano il monte, vedevano spiegarsi e
allargarsi tutto intorno il bello, grandioso ed rrido paesaggio. Da una parte
l’occhio correva a Drepano, simile a una falce caduta in una immensa pozza di
calce, per via delle saline che brillavano di bianco; e più lontano, tra il
dubbio vapore che saliva dalla terra ridestatasi, si vedeva Lilibeo e la
distanza avvolgeva la pianura in una cerula e indistinta nube. Oltre Drepano,
oltre Lilibeo, il mare azzurro, senza
confine; e le isole, il capo Egitallo, che già si doravano al sopravvenire
dell’aurora. Ma girando il monte, mutava la scena. Altri monti e ancora monti,
quali ripidi tagliati a picco sul mare, che qui prendeva una tinta di argento;
quali succedentisi l’un dopo l’altro entro terra, come in uno scenario
fantastico. S’aprivano seni fra le rocce; ecco le acque putizianese(14); ecco
biancheggiare, tra il sì e il no dei capi, Cetaria(15); e più lontana ancora la
punta dei monti segestani. Dentro terra, boschi e monti or coperti di verde,
ora brulli. E l’una e l’altra visione si alternavano sotto lo sguardo ammiratore
dei pellegrini, che il sole, sorgente dalle onde, rivestiva d’oro.
Cleone ed Egle si fermavano di tanto in tanto, ed
ammiravano lo spettacolo, sempre nuovo, sempre bello, con un sentimento
religioso; e connettevano al levarsi imponente del sole e al risveglio della
natura, le credenze negli Dei, di che era piena la loro coscienza. Saliva dagli
alberi un pigolìo festoso: gli uccelli si rallegravano e ringraziavano il dio
della luce; e dalle erbe agli alberi passava come un fremito, che era anch’esso
di ringraziamento, per essere usciti fuor dalle tenebre della notte.
E con loro si fermavano qua e là i pellegrini. E
raccontavano. Uno di essi parlava di Venere Ericina.
Luigi Natoli: Gli Schiavi – Romanzo storico ambientato nella Sicilia del
103 a.c. al tempo della Seconda Guerra Servile. L’opera è ricostruita e
trascritta dal romanzo originale, pubblicato con la casa editrice Sonzogno nel
1936. Le note aggiuntive dell’editore sono poste allo scopo di far capire
maggiormente al lettore il grande lavoro di ricostruzione del periodo storico
del romanzo svolto dall’autore.
Pagine 387 – Prezzo di
copertina € 22,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile al sito ibuonicuginieditori.it, lafeltrinelli.it, Amazon Prime e tutti i siti vendita online.
In libreria presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Sciuti (Via Sciuti n. 91/f), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi n. 15)
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