Entrò nella chiesa; ma appena varcata la soglia, si sentì un tuffo di sangue al cuore. Ritti accanto alla pila dell’acqua benedetta, in modo da guardare chi entrava nella chiesa, stavano due giovani, avvolti nei mantelli, ma a capo scoperto. Sebbene Venezia, la notte innanzi, non avesse potuto vederli in volto, pure li riconobbe alla taglia; e non ebbe nessun dubbio, che il più giovane dei due, fosse proprio quello che s’era fermato ad ammirarla, quando gli vide le guance colorarsi di fiamma e poi impallidire, e lo vide tuffar le dita nell’acqua benedetta, e porgerla, con un inchino, alle tre fanciulle. - Ah! È desso! È desso! – le gridò il cuore battendole con violenza frequenza nel petto. Come dubitarne? Negli occhi gli aveva letto la stessa eloquente ammirazione, che avevano avute le parole: e che fosse un cavaliere, oltre che alla grazia avuta del gesto, si vedeva dall’atteggiamento, non servile, ma deferente del suo compagno, più maturo d’anni, più robusto e di più grave aspetto. Nel toccargli le dita la mano di Venezia tremò, e il sangue che le salì al viso, le offuscò la vista. Commossa andò con le sue sorelle a sedere sui banchi di quercia scolpita, che erano nella cappella del Crocifisso; e appena seduta, stringendosi a Isabella mormorò: - È lui!... Isabella, a cui Venezia aveva già fatto le prime confidenze, guardò il giovane, che ora volgeva a loro la faccia.
Franceschello Ventimiglia era allora nel primo fiore della giovinezza; di mezzana statura, ma ben fatto, e aggraziato nella persona; di volto bruno pallido, coi capelli neri, gli occhi grandi, un insieme gentile e forte a un tempo, al quale le sventure avevan dato un non so che di grave e malinconico, pieno di fascino. La nobiltà del sangue gli si leggeva nella finezza dei tratti, nell’aria, in quella naturale alterezza, che non s’impara a nessuna scuola, e che le ricchezze non bastano a dare. Egli pareva fatto per innamorare, e se era prode, come aveva mostrato la notte innanzi, poteva bene incarnare il tipo di cavaliere fatato che veniva d’oltremare a rapire la bella fanciulla del castello incantato. Non senza contrasti Franceschello aveva potuto superare l’opposizione di Pirruccio, che stimava non imprudenza, ma follia, andare a esporsi sotto gli occhi dei Chiaramonte e dei Palizzi. - Chi vuoi che mi conosca? – aveva risposto. – Io ero fanciulletto, quando lasciai Palermo, vissi nel castello di Geraci, poi, dopo l’assassinio di mio padre (che benedetta sia la sua memoria!) in prigione; poi in esilio… non ho più prima d’ora, messo piede in Palermo… chi lo sa chi sono io? Soltanto tu, Niccoloso e suo padre, tre persone che non lo diranno certamente. Io posso andare e venire anche dallo Steri, con un nome posticcio, senza che nessuno sospetti l’esser mio…
Né Franceschello né Venezia quella domenica ascoltarono la messa; eran troppo distratti e troppo felici. Si erano intesi e non avevan bisogno di confessarsi quello che i loro occhi avevano già rivelato. Quando la messa finì, Franceschello voleva correre a ridare l’acqua benedetta alle dame; ma Pirruccio lo trattenne con violenza: - Per Iddio! – mormorò fra i denti con collera, – non vi lascio commettere la seconda! Volete proprio che i servi se ne accorgano e vadano a raccontare a messer Matteo? Franceschello dovette cedere, e contentarsi di veder passare Venezia trepidante e rossa di pudore e di piacere. Avrebbe voluto seguirla, ma Pirruccio vinse anche questa volta. Che bisogno c’era di esporsi? Sapeva chi era e dove abitava.
- Ma non so quale sia il suo nome…
- Non ve lo dirà per la strada. Non potremo saperlo che dal sagrestano. Aspettami, domanderò io. E andò a domandarglielo.
- Non sono le figlie di messer Matteo Palizzi quelle fanciulle?
- Sì, proprio …
- Dicevo bene… da tanto tempo che non le vedevo, ero un po’ incerto. Si son fatte belle!... specialmente quella bionda, la più alta…
- Dicevo bene… da tanto tempo che non le vedevo, ero un po’ incerto. Si son fatte belle!... specialmente quella bionda, la più alta…
- Ah, madonna Venezia? …
- Appunto…
- Avete ragione… Franceschello aspettava con impazienza; quando seppe il nome della fanciulla, lo ripetè quattro o cinque volte; e nessun nome gli parve più bello….
A Franceschello non pareva l’ora di restar solo. Voleva rivedere Venezia, e supponendo che essa si sarebbe affacciata di là, dove per la prima volta si erano veduti, se ne andò su la spiaggia, e aspettò con gli occhi fissi alla finestra. Aspettando pensava. Era venuto a Palermo con Pirruccio per avere quel tesoro, involato probabilmente da Lorenzo Lupo, che certamente gli apparteneva e per ritirare con sé Maddalena, di cui Pirruccio le aveva parlato, se fosse stata ritrovata o rintracciata. Eran venuti di sera, alla locanda di Simone; lasciati i cavalli, Franceschello aveva voluto fare un giro per la città, e per non imbattersi nella sciurta, e parlar più liberamente avevan percorso le vie più deserte. Il caso o il destino lo aveva spinto sotto quelle finestre. Ora ripensandoci, diceva a sé stesso che tutto era destinato da Dio, e che la ricerca del tesoro non era stata che il motivo apparente: ma il fine occulto e vero predestinato da Dio era la conoscenza di quella cara fanciulla. Poteva egli opporsi alla volontà della Provvidenza così manifesta? Doveva amar Venezia, perché era prescritto. Conforto e incoraggiato da questi pensieri, aspettò, sicuro che la stessa forza misteriosa che ispirava lui ispirerebbe Venezia ad affacciarsi. Ed ecco la finestra schiudersi, e sullo sfondo scuro apparire la fanciulla, illuminata da un raggio di sole, che parve trapassare la nuvolaglia per circonfonderla del suo splendore. Franceschello restò estatico a contemplarla. Ella sorrise. Sparve un istante, ritornò con una rosa in mano, si sporse alquanto e gittò il fiore. Franceschello lo colse a volo; lo baciò, Venezia col viso di porpora fuggì dentro; ed egli aspettò invano che ricomparisse. In sua vece apparve il volto curioso e sospettoso di mamma Rosa, che guardato di qua e di là, fissò gli occhi interrogativi sopra di lui. Allora egli si allontanò lentamente, col cuore gonfio di gioia, stringendo quella rosa con una ebbrezza maggiore di quella che avrebbe provato se avesse ritrovato il suo tesoro….
Luigi Natoli: Il tesoro dei Ventimiglia (Latini e Catalani vol 2)
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1925.
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