venerdì 14 settembre 2018

Luigi Natoli: Il giudizio di Dio. Tratto da: Gli ultimi saraceni.


- Il re! Il re!...
La piazza fremette, come un campo di spighe, quando vi passa un'ala di vento; le teste ondeggiarono, voltandosi, guar­dando su il loggiato del palazzo reale, sul cui parapetto di pietra leggiadramente in­tagliato era stato disteso un drappo di seta ricamato.
Il palazzo reale, o castello regio, o, come ancora si chiamava volgarmente, il Cassaro, offriva allora, dalla parte della città, un aspetto assai diverso da quello che gli diedero bestialmente i viceré spagnoli dal Secolo XVI in poi.
Nel 1159, sebbene dai due Ruggeri, il conte e il re, avesse subito  modificazioni tali da distinguervisi il Castello dal pa­lazzo, palatium, serbava nelle sue linee generali l'aspetto massiccio e formidabile di rocca. Aveva alle estremità due torri, una detta Pisana, ed è ancora in piedi, con le sue arcate, la sua torricella laterale – è quella stessa su cui si trova la Specola; l'altra, all'estremità opposta, dominando il burrone sotto il quale scorreva il fiumicello di Kemonia, detta Greca; ora scomparsa, ma pure non difficilmente riconoscibile. Fra l'una e l'altra torre si stendeva come una specie di cortina merlata, con portici, costruita o trasformata o rabellita da Rug­gero II, e si chiamava la Gioaria. Coloro che han veduto il sipario del teatro Mas­simo, dipinto dallo Sciuti, sapiente rico­struttore di ambienti, possono formarsi un'idea di quello che fosse il palazzo regio.
Nel 1159 il re, Guglielmo I faceva costruire un'altra torre, detta Chirimbi, la quale però non modificava il prospetto principale dell’edificio. 
Dinanzi al quale, presso a poco là dove è il monumento a Filippo V si levava altra torre, forse avanzo di fortificazioni romane, che dal colore dei mattoni, di cui era fab­bricata, era detta Torre Rossa. Sorgeva i­solata, presso le mura che partendo dalla torre Greca, correvano a levante, sul ciglio del burrone, signoreggiando la bassura, verdeggiante di orti e di vigne, fra cui scorreva il Kemonia o Cannizzaro. Poco discosto dalla Torre Rossa, di fronte alla Gioaria si levava allora un altro edificio, anch’esso circondato di portici, con un vasto cortile o recinto, lastricato: forse antica basilica o curia dei pretori di Roma, che il popolo chiamava volgarmente il Pissoto, e i dotti Aula regia, e più tardi, caduta in abbandono, ridotta cava di pietre e di colonne invasa dalle erbe, passò nelle memorie col nome di Sala Verde. Una parte di questo edificio si trova anch’essa ritratta nel sipario dello Sciuti, a sinistra dello spettatore. 
Fra la Gioaria e il portico del Pissoto rimaneva uno spazio sufficiente, come una piazza di cui i due edifici formavano due lati; un altro, il meridionale era formato dalle mura; l’ultimo del tempio di S. Maria de Pietà, antico tempio romano o romaico, che durò intatto, finchè nel 1648, al cardinal Trivulzio non venne in capo di abbatterlo per dar luogo a un bastione da minacciare il popolo. (Che il diavol lo riposi pel doppio sacrilegio, cotesto barbaro settentrionale!)
È necessario indugiarsi un poco, per la intelligenza degli avvenimenti su particolari topografici; giacchè difficilmente ci si può formare un’idea di quel che fosse la parte superiore della città di Palermo nel secolo XII, occupata oggi da Villa Bonanno, dallo stereobato del palazzo reale, dalle caserme, dalla Prefettura e dal Seminario Arcivescovile. Allora formava un quartiere distinto dal resto della città, e chiuso da mura, che da una parte dominavano la palude del Papireto, e girando dietro al castello regio, piegando a mezzodì, scendevano lungo il Kemonia, fino all’altezza della Caserma della Trinità o Distretto Militare, donde, piegando nuovamente in linea quasi retta, correvano fino al Papireto, passando dinanzi al Campanile del Duomo, che probabilmente era una delle torri che munivano queste mura. 
Il vasto recinto si chiamava con voce greca Galca: era sparso di chiese, percorso di strade, rallegrato di vigne e di giardini. Dalla Torre Pisana si partivano due stra­de, una percorreva presso a poco lo stesso asse della moderna via Vittorio Emanuele, e si chiamava As Simat, la fila, o latiniz­zando questo nome, la Semità del Cassaro. Tagliava in due dall'alto in basso la Galca, e, per una porta, si congiungeva al resto della Simat o ruga marmorea, che attraversava la città antica, in linea quasi letta, ed è oggi la via Vittorio Emanuele, l'altra strada percorreva invece la linea delle mura occi­dentali e settentrionali, passava dinanzi la chiesetta della Maddalena, ancor esistente dentro la Caserma dei carabinieri, la chiesa di S. Paolo, e scendeva giù, fino alla torre del Campanile del Duomo, passava dietro la cappella dell'Incoronazione, e finiva in una altra strada che si arrestava alla porta di S. Agata nel fiume del Papireto, o, arabicamente wadi, donde Guidda. Questa strada si chiamava Ruga magna Coperta, perchè era in fondo un lungo por­tico, murato da una parte, e illuminato da ampie finestre.
Due altre strade principali tagliavano la Semita, la ruga del Pissoto, o ruga Mag­giore che passava tra l'edificio dell'Aula regia e la chiesa di S. Costantino, (che an­cora sorvive presso a poco nell'antico sito), e si prolunga fra la caserma dei carabi­nieri e la caserma S. Giacomo ora Calatafimi; e la ruga di S. Nicolò dei Poveri, che costeggiava gli edifici romani, di cui si son trovate le vestigia, e passava tra la Prefet­tura e il Seminario arcivescovile, dove prendeva il nome di Ruga di S. Barbara. Questa strada, ora chiusa da un cancello, è ancora visibile.
Oltre gli edifici ricordati via via, e le chiese nominate, v'eran altre chiese nella Galca; v'era la chiesa di S. Maria dell'Itria, forse tra la Torre Rossa e S. Costantino; la chiesa di S. Maria la Mazara e quella di S. Giacomo, nell'area della caserma Calatafimi; la chiesa di S. Barbara Soprana, e più giù quella di S. Teodoro, con un o­spizio, e un bello e vasto viridario o giar­dino. Queste due chiese sparirono con la fabbrica del nuovo arcivescovato e del se­minario tridentino. Un'altra strada princi­pale, infine, quasi parallela alla Semita del Cassaro, correva lungo le mura meridio­nali; e poichè essa dominava il burrone del Kemonia, ed era, per così dire, una specie di lungo terrazzo o boulevard, prendeva nome di Sera, che in arabo significa ap­punto strada sulle mura o terrazzo o bou­levard. Questo Sera prendeva vari nomi, secondo gli edifici che costeggiava. Nella Galca, si chiamava Sera di S. Costantino. Oltre la Galca, correndo via per le antiche muraglie della città antica si chiamava successivamente Sera della Casa del Saraceno, Sera della porta di Sudan, Sera della casa del conte di Marsico, Sera delle case di Martorano.
Sbozzata così la topografia della Galca, riesce più facile immaginare dove e quanto fosse ampia la piazza nella quale si era raccolta la folla, per assistere alla pubblica decisione di una lite giuridica, per la qua­le, non essendovi altri elementi di prova, le due parti invocavano l'intervento della volontà divina, con una di quelle forme giudiziali in uso tra i franchi e introdotte dai principi normanni nella legislazione si­ciliana: il giudizio di Dio.
Attraverso i capitoli e le consuetudini delle città, i capitoli o le Assise dei re di Sicilia, si può indagare in quali circostan­ze e in quali forme si consentisse di ricor­rere al giudizio di Dio; nè dispiacerà al lettore di farvi una scorsa rapidissima, per avere un criterio di ciò che si sarebbe svolto al cospetto della folla e del re. 
Quando, come si è detto, non v’eran altre prove per accertare la colpa di cui qualcuno era accusato, si ricorse dapprima al giuramento, dato in forma solenne dal presunto reo, e, in tempi forse in cui il giuramento era tenuto veramente sacro, bastava esso a purgare – come si diceva – il reo. Ma col tempo i giudici divennero un po' increduli, e pretesero che testimoni ossia compurgatori, condividessero col reo la responsabilità del giuramento; la qual cosa non fece che aumentare il numero degli spergiuri, senza far fare un passo in là alla giustizia... tal quale come avviene oggi nei processi criminali.
Allora si ricorse all'intervento soprannaturale. Dio non può permettere che chi è innocente soccomba. Egli dunque manifesterà il vero; sottoporre un presunto reo a una prova straordinaria, e dall'effetto, dal modo come è sostenuta, dedurne la manifestazione del giudizio di Dio, parve metodo sicuro e infallibile.
I giudizi di Dio furono di due specie: purgazioni e duelli. Le purgazioni consistevano nel subire una prova insensata e atroce, come quella dell'acqua bollente, quelle del ferro arroventato o dell’acqua ghiaccia, o del pane e cacio. Un documento curioso, riprodotto da monsignor Di Giovanni in un'opera De divinis siculorum offici e poi dal Gregorio, contiene il rito da seguire in queste prove di purgazione; alle quali non soltanto era sottoposto l’imputato, ma, potevan anche essere obbligati i testimoni. Il duello invece, era più adoperato fra' nobili, ma meno anche da borghesi; sia fra le due parti in causa, accusatore e accusato, sia fra l'uno dei due e un testimonio. La legge consentiva che uno o tutti e due i contendenti si facessero rappresentare da un campione. L’età dei combattenti o dei campioni, il giorno, il luogo, le armi, le forme, il rito del duello erano minutamente prescritti.
Le leggi nostre prescrivevano anche i casi in cui era ammesso il giudizio di Dio per duello; si possono desumere dalle consuetudini della città di Trapani. Erano i delitti di lesa maestà, gli attentati alla vita del re, la falsificazione della moneta, l’omicidio, il furto, la rapina, e in generale qualunque altro delitto che, secondo i riti ordinari della giustizia, avrebbe comportato la pena di morte o l’amputazione di qualche membro. 


Luigi Natoli: Gli ultimi saraceni. 
Nella versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 05 novembre 1911 e raccolto per la prima volta in unico volume ad opera de I Buoni Cugini editori. 
Pagine 719 - Prezzo di copertina € 25,00
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