Il fratello di donna Laura de Gotho e Fiordimonte, baronessa del Gibiso, era davvero un bel giovane; e se Cassandra Abate l’aveva rassomigliato al generoso cavaliere di Cappadocia non aveva torto. Se non che era un S. Giorgio raffinato.
Pei giovani signori di Messina, egli era il Petronio arbiter elegantiarum, dal quale prendevano norma. Sotto un’apparente disinvoltura e un’aria di noncuranza, un occhio attento poteva scoprire le cure scrupolose di un uomo che ha una specie di culto per la propria persona e al quale piace di piacere agli altri. La sua camicia, il suo colletto, i manichini erano di una bianchezza abbagliante, ornati di pizzi finissimi; il taglio del suo giubboncello era irreprensibile; l’armonia fra i colori della stoffa e quelli dei passamani, dei nastri, della sciarpa era una rivelazione di buon gusto; i bottoni, il cinturino e l’elsa della spada erano dei capolavori di finitezza e ricchezza. Egli sapeva dare una bella piega all’ampia tesa del cappello, sapeva gittarsi, con un bel gesto, il mantello su la spalla, raccoglierlo col braccio, così da comporre pieghe larghe e ondeggianti; aveva una maniera di gestire sobria, con una grazia naturale, che lasciavano vedere la perfezione quasi feminea delle mani, lunghe, sottili, con le unghie rosee; e sapeva, fermandosi, prender degli atteggiamenti che lasciavano vedere tutta l’eleganza della sua taglia, che congiungeva la flessibilità di un corpo femmineo, con la gagliardia di un corpo al quale non erano estranei gli esercizi più vigorosamente virili.
Non era alto; di media statura, ma ben tagliato; spalle e petto ampii, i fianchi stretti, le gambe muscolose; bruno di capelli e di colorito, con occhi neri e acuti, e nell’aspetto una specie di fierezza piena di nobiltà, quasi il segno di uno spirito consapevole della propria superiorità ma senza ostentazione, e senza gravità; congiunto anzi con una gentile giocondità nel sorriso, e con la franca cortesia dei modi, che addolciva la rigidità dei cerimoniali spagnoli da cui era regolata la vita anche nell’intimo della famiglia.
Ma Galeazzo de Gotho aveva altre qualità che lo ingrandivano agli occhi di tutti. Era di un coraggio e di un’audacia che giungevano fin quasi alla temerità; ed era generoso e leale fino a dimenticarsi.
Si narrava di grandi pericoli affrontati con un sangue freddo che sgominava i suoi avversari; ai quali pericoli non era del resto estraneo il nome di qualche bella e nobile signora, ciò che dava a essi un carattere avventuroso e destava sospiri d’invidia e malcelate gelosie.
Quel che piaceva di più in Galeazzo era quella sua noncuranza per tutto ciò che gli capitava, come fossero le cose più naturali del mondo; e quel non parlarne mai, e di sviare il discorso, ogni volta che qualcuno ve lo tirava.
Salvo dunque chi le aveva prese, o chi, non osando rischiare la pelle serbava dentro il proprio rancore, tutti volevano bene a Galeazzo de Gotho; ma in nessuno questo affetto giungeva fino quasi all’adorazione come in Antonello Pirruccio, agli occhi del quale il Signore aveva adunate tutte le qualità del perfetto cavaliere in Galeazzo.
V’erano anche due altre persone che lo amavano profondamente: l’illustrissimo signor don Tommaso, suo padre, e donna Laura, sua sorella. Tra il loro amore e quello di Antonello Pirruccio era questa differenza; che Antonello si esaltava per ogni avventura del suo bel cugino, e batteva le mani con ammirazione a ogni bel gesto, e don Tommaso e donna Laura invece trepidavano.
Pei giovani signori di Messina, egli era il Petronio arbiter elegantiarum, dal quale prendevano norma. Sotto un’apparente disinvoltura e un’aria di noncuranza, un occhio attento poteva scoprire le cure scrupolose di un uomo che ha una specie di culto per la propria persona e al quale piace di piacere agli altri. La sua camicia, il suo colletto, i manichini erano di una bianchezza abbagliante, ornati di pizzi finissimi; il taglio del suo giubboncello era irreprensibile; l’armonia fra i colori della stoffa e quelli dei passamani, dei nastri, della sciarpa era una rivelazione di buon gusto; i bottoni, il cinturino e l’elsa della spada erano dei capolavori di finitezza e ricchezza. Egli sapeva dare una bella piega all’ampia tesa del cappello, sapeva gittarsi, con un bel gesto, il mantello su la spalla, raccoglierlo col braccio, così da comporre pieghe larghe e ondeggianti; aveva una maniera di gestire sobria, con una grazia naturale, che lasciavano vedere la perfezione quasi feminea delle mani, lunghe, sottili, con le unghie rosee; e sapeva, fermandosi, prender degli atteggiamenti che lasciavano vedere tutta l’eleganza della sua taglia, che congiungeva la flessibilità di un corpo femmineo, con la gagliardia di un corpo al quale non erano estranei gli esercizi più vigorosamente virili.
Non era alto; di media statura, ma ben tagliato; spalle e petto ampii, i fianchi stretti, le gambe muscolose; bruno di capelli e di colorito, con occhi neri e acuti, e nell’aspetto una specie di fierezza piena di nobiltà, quasi il segno di uno spirito consapevole della propria superiorità ma senza ostentazione, e senza gravità; congiunto anzi con una gentile giocondità nel sorriso, e con la franca cortesia dei modi, che addolciva la rigidità dei cerimoniali spagnoli da cui era regolata la vita anche nell’intimo della famiglia.
Ma Galeazzo de Gotho aveva altre qualità che lo ingrandivano agli occhi di tutti. Era di un coraggio e di un’audacia che giungevano fin quasi alla temerità; ed era generoso e leale fino a dimenticarsi.
Si narrava di grandi pericoli affrontati con un sangue freddo che sgominava i suoi avversari; ai quali pericoli non era del resto estraneo il nome di qualche bella e nobile signora, ciò che dava a essi un carattere avventuroso e destava sospiri d’invidia e malcelate gelosie.
Quel che piaceva di più in Galeazzo era quella sua noncuranza per tutto ciò che gli capitava, come fossero le cose più naturali del mondo; e quel non parlarne mai, e di sviare il discorso, ogni volta che qualcuno ve lo tirava.
Salvo dunque chi le aveva prese, o chi, non osando rischiare la pelle serbava dentro il proprio rancore, tutti volevano bene a Galeazzo de Gotho; ma in nessuno questo affetto giungeva fino quasi all’adorazione come in Antonello Pirruccio, agli occhi del quale il Signore aveva adunate tutte le qualità del perfetto cavaliere in Galeazzo.
V’erano anche due altre persone che lo amavano profondamente: l’illustrissimo signor don Tommaso, suo padre, e donna Laura, sua sorella. Tra il loro amore e quello di Antonello Pirruccio era questa differenza; che Antonello si esaltava per ogni avventura del suo bel cugino, e batteva le mani con ammirazione a ogni bel gesto, e don Tommaso e donna Laura invece trepidavano.
E Galeazzo era, o sembrava felice. Bello, forte, coraggioso, valoroso, amato dalle donne, amato dal padre, con un amico devoto, in verità pareva che il dolore non osasse avvicinarglisi, o che non avesse il tempo e il modo di pensare ai dolori della vita. La sua giornata era divisa con una regolarità, che egli non aveva prestabilita, ma che si era venuta formando dal tenore stesso della sua vita. Tutte le mattine egli faceva una lunga cavalcata, obbligando il cavallo a superare ostacoli, saltar fossi, e non aver paura di spari; al ritorno dopo una sobria colazione, andava All’Accademia della Stella, dove si esercitava nella scherma con gli altri cavalieri, o attendeva alle altre incombenze impostegli dalla sua condizione. A mezzodì, secondo l’uso, desinava, poi, riposato per un paio d’ore, usciva a passeggio, andava a far visite di dovere, riservando le altre, le più gradite e le più avventurose, la notte, dopo cena.
Luigi Natoli: I Cavalieri della Stella o La caduta di Messina.
Nella versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1908
Pagine 956 - Prezzo di copertina € 26,00
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