Don Gregorio uscì dalla casa di Clara Stella profondamente turbato. Quella rivelazione, il sapere che avrebbe avuto un erede, che la sua razza non sarebbe morta con lui, gli faceva ancor più apparire grave e odiosa la grande sua dimora, nella quale invano aveva aspettato un figlio; gli rendeva ancor più odiosa quella moglie infeconda, che pur eravi signora, e che non avrebbe certamente tollerato in casa un bastardo. Come mai aveva tollerato per tanti anni quelle nozze? E per qual destino le aveva contratte? Attraversò la strada del Dromo(3) per alcuni vicoli entrò in quella dell’Uccellatore(4) e passò nella piazza del Duomo. Poteva essere un’ora di notte;(5) una magnifica luna illuminava la vasta piazza, e la facciata del Duomo, così chiaramente, che si distinguevano gli intagli del magnifico portale. L’acqua della grande fontana del Montorsoli scendeva nella vasca dalle bocche dei delfini, con un mormorio dolce e sereno; e nel candore lunare quel popolo di mostri, di naiadi e di deità sopra il quale trionfava Orione, il favoleggiato fondatore di Messina, biancheggiava fantasticamente. Già tutta la piazza, con la massa del Duomo, torreggiata dai due campanili coi palazzi alti e silenziosi, con la chiesa di S. Lorenzo e le sei strade che si dilungavano quali nell’ombra, quali tutte luminose, aveva qualcosa di fantastico nella sua solennità; ma don Gregorio non aveva un cervello poetico, e tanto meno in quella sera si sentiva disposto ad ammirare quel quadro suggestivo. Entrò per la strada nuova o d’Austria(6) che conduceva diritta al palazzo reale, più per un’abitudine che per un divisamento. Egli era di fatto uno degli intimi dell’illustre signor don Luigi de l’Hoyo y Maeda, cavaliere di S. Giacomo e stratigò della nobile città e del distretto di Messina per sua maestà Carlo III; e ogni sera, prima di rincasare, andava a riverirlo e a discorrere delle cose cittadine, che in quei tempi specialmente, volgevano assai gravi.
Don Gregorio sebbene patrizio, era dei più tenaci avversari del partito cittadino, e teneva per lo stratigò e pel popolo, cioè pel partito regio, le cui mire e i cui sforzi eran di diminuire a poco a poco fino a distruggerli, tutti i privilegi in virtù dei quali Messina si reggeva a repubblica, pur riconoscendo nel re il suo signore. Difensori tenaci di quei privilegi erano i nobili e gran parte della borghesia e della maestranza più alta: difenderli, infatti, significava conservare il potere; giacché gli ordinamenti erano tali, che in verità il governo della città e dei borghi, o, come si diceva, del Costretto, era una oligarchia temperata.
La politica della monarchia spagnuola aveva accresciuto dapprima la libertà, le immunità e i privilegi della città, per alimentarne l’antagonismo con Palermo, carezzandone le antiche aspirazioni, a farsi capitale dell’Isola, e per scavare sempre più l’abisso fra le due grandi città; poi si era spaventata di aver quasi creato uno stato dentro lo stato, e aveva iniziato un lavoro sordo, prudente e lento per distruggere ogni prerogativa. Nel 1671, anno in cui incomincia la presente storia, strumento di questa politica era appunto l’illustrissimo don Luigi de l’Hoyo y Maeda, che giunto in Messina in un periodo di turbolenze, e con un fondo segreto di cinquantamila scudi per raggiungere l’intento, si era posto all’opera con una furberia da maestro.
Non v’era altro mezzo più sicuro per colpire le libertà e i privilegi del comune, che quello di abbattere il partito che ne era il geloso conservatore e difensore: e non v’era mezzo più efficace per abbatter la nobiltà, che quello di rappresentarla come la tiranna del popolo; e di far balenare agli occhi delle classi meno agiate il miraggio di maggiori vantaggi e una nuova era di felicità dal ristabilimento dell’autorità e del governo regio. L’avversario da combattere era potente. Aveva per sè la ricchezza, la cultura, la tradizione; vagheggiava anche – ma non palesemente – ideali di una più larga autonomia, e forse anche di indipendenza dalla monarchia spagnola; aveva infine nel suo grembo un organismo potente, non ignoto al governo, ma quasi invulnerabile: una società segreta, una specie di carboneria e di frammassoneria, di settanta membri, chiamata appunto per questo numero, la Setta, della quale soltanto i capi conoscevano lo scopo, ma i cui membri erano fedeli, arditi, capaci di tutto, e contavano grandi aderenze nel patriziato e nelle maestranze.
Andava a casa sua, per cominciare a mettere in esecuzione il suo piano. Percorreva la via dei Banchi, o dei Mercanti, come si chiamava, che per diciotto porte comunicava con la marina. L’aria fresca che vi penetrava dallo Stretto, andava calmando a poco a poco la tensione dei suoi nervi; sì che, avvicinandosi a casa, ripigliava il suo aspetto freddo e tagliente.
Egli entrò nel momento che donna Laura e Cassandra Abate recitavano le litanie; l’aspetto delle due donne inginocchiate, in pio atteggiamento, lo conturbò un poco, e specialmente la vista di donna Laura, sul cui volto l’entrare del marito aveva diffuso una espressione di dolore e quasi di sgomento.
Forse in quel momento don Gregorio rivedeva in essa la fanciulla di quindici anni, che dieci anni prima aveva tolto ai trastulli, e aveva stretta fra le sue braccia, timida e tremante come una agnella strappata all’ovile materno.
Un lieve corrugar della fronte rivelava lo sforzo che egli faceva per non tradire il suo turbamento, che del resto fu passeggiero.
- Ho bisogno di parlarvi – disse alla moglie.
Don Gregorio sebbene patrizio, era dei più tenaci avversari del partito cittadino, e teneva per lo stratigò e pel popolo, cioè pel partito regio, le cui mire e i cui sforzi eran di diminuire a poco a poco fino a distruggerli, tutti i privilegi in virtù dei quali Messina si reggeva a repubblica, pur riconoscendo nel re il suo signore. Difensori tenaci di quei privilegi erano i nobili e gran parte della borghesia e della maestranza più alta: difenderli, infatti, significava conservare il potere; giacché gli ordinamenti erano tali, che in verità il governo della città e dei borghi, o, come si diceva, del Costretto, era una oligarchia temperata.
La politica della monarchia spagnuola aveva accresciuto dapprima la libertà, le immunità e i privilegi della città, per alimentarne l’antagonismo con Palermo, carezzandone le antiche aspirazioni, a farsi capitale dell’Isola, e per scavare sempre più l’abisso fra le due grandi città; poi si era spaventata di aver quasi creato uno stato dentro lo stato, e aveva iniziato un lavoro sordo, prudente e lento per distruggere ogni prerogativa. Nel 1671, anno in cui incomincia la presente storia, strumento di questa politica era appunto l’illustrissimo don Luigi de l’Hoyo y Maeda, che giunto in Messina in un periodo di turbolenze, e con un fondo segreto di cinquantamila scudi per raggiungere l’intento, si era posto all’opera con una furberia da maestro.
Non v’era altro mezzo più sicuro per colpire le libertà e i privilegi del comune, che quello di abbattere il partito che ne era il geloso conservatore e difensore: e non v’era mezzo più efficace per abbatter la nobiltà, che quello di rappresentarla come la tiranna del popolo; e di far balenare agli occhi delle classi meno agiate il miraggio di maggiori vantaggi e una nuova era di felicità dal ristabilimento dell’autorità e del governo regio. L’avversario da combattere era potente. Aveva per sè la ricchezza, la cultura, la tradizione; vagheggiava anche – ma non palesemente – ideali di una più larga autonomia, e forse anche di indipendenza dalla monarchia spagnola; aveva infine nel suo grembo un organismo potente, non ignoto al governo, ma quasi invulnerabile: una società segreta, una specie di carboneria e di frammassoneria, di settanta membri, chiamata appunto per questo numero, la Setta, della quale soltanto i capi conoscevano lo scopo, ma i cui membri erano fedeli, arditi, capaci di tutto, e contavano grandi aderenze nel patriziato e nelle maestranze.
Andava a casa sua, per cominciare a mettere in esecuzione il suo piano. Percorreva la via dei Banchi, o dei Mercanti, come si chiamava, che per diciotto porte comunicava con la marina. L’aria fresca che vi penetrava dallo Stretto, andava calmando a poco a poco la tensione dei suoi nervi; sì che, avvicinandosi a casa, ripigliava il suo aspetto freddo e tagliente.
Egli entrò nel momento che donna Laura e Cassandra Abate recitavano le litanie; l’aspetto delle due donne inginocchiate, in pio atteggiamento, lo conturbò un poco, e specialmente la vista di donna Laura, sul cui volto l’entrare del marito aveva diffuso una espressione di dolore e quasi di sgomento.
Forse in quel momento don Gregorio rivedeva in essa la fanciulla di quindici anni, che dieci anni prima aveva tolto ai trastulli, e aveva stretta fra le sue braccia, timida e tremante come una agnella strappata all’ovile materno.
Un lieve corrugar della fronte rivelava lo sforzo che egli faceva per non tradire il suo turbamento, che del resto fu passeggiero.
- Ho bisogno di parlarvi – disse alla moglie.
Luigi Natoli: I Cavalieri della Stella o La caduta di Messina.
Nella versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1908.
Pagine 956 - Prezzo di copertina € 26,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online.
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
Nessun commento:
Posta un commento