La sera del 12 gennaio,
anniversario della nascita del re, v’era una rappresentazione di gala al teatro
di Santa Cecilia: l’Alzira del
maestro Nicolini. Si sapeva che il re vi interveniva: la nobiltà aveva
accaparrato i palchi di prima e seconda fila, ben inteso che anche in questo si
osservavano le prerogative della gerarchia: i semplici baroni non potevano
avere lo stesso rango dei principi. I cavalieri erano relegati nella terza
fila, coi proprietari, coi curiali, i “paglietti” e così di seguito. Anche le
sedie della platea erano destinate gerarchicamente: le prime file erano pei
nobili. Quanto alla piccola borghesia, ai piccoli mercanti o bottegai, agli
artigiani, dovevano contentarsi del loggione, per non offendere di contatti
plebei l’incontaminata purezza del gentil sangue patrizio. Lo spettacolo di
solito cominciava a due ore di notte; e il teatro presentava a quell’ora una
vista maravigliosa. Migliaia di candele accese nel gran lampadare che pendeva
dal soffitto e nelle lumiere infisse sui pilastrini tra palco e palco, per
tutti e cinque gli ordini diffondevano una luce viva e calda, che faceva
brillare le dorature e i birilli di cristallo; sugli sfondi cremisi e ombrosi
dei palchi i colori vivaci dei vestiti di seta si staccavano nettamente; le
carnagioni parevano più candide, i visi più regolari, giovenili, di una
bellezza vaporosa; e sotto le capigliature incipriate gli occhi splendevano, e
le bocche si accendevano di un bel cinabro. Colli, semibraccia nude, quali fino
all’omero, quali conservatrici della moda passata fino al gomito, trasparivano
tra nubi di veli e di pizzi, o si offrivano nella loro bellezza provocante:
intorno ai colli, sopra i seni, alle orecchie, sulle vesti, sui capelli, era
uno scintillio di gemme; sul sommo delle pettinature tremolavano pennacchietti
bianchi, ondeggiavano piume morbide che parevano piccoli strappi di nubi. Tutta
la bella sala, che era stata ingrandita, e novamente decorata con maggior
ricchezza da dodici anni, rifulgeva, come un tempio consacrato alla beltà.
All’ingresso nella sala, e giro giro per la curva, sotto i palchi erano
schierati i granatieri, in gran gala, coi fucili e le baionette inastate: altri
erano nel vestibolo, e fuori dinanzi alla porta; altri nel corridoio del
secondo ordine, di qua e di là della porta del palco reale: il più vasto, nel
mezzo della curva, col padiglione azzurro e la corona regia.
Il teatro di S. Cecilia,
così detto da una chiesetta dedicata alla santa, che ivi sorgeva, e che
apparteneva all’Unione dei Musici, era stato eretto tra il 1692 e il 1693, dai
Musici, col concorso della nobiltà e segnatamente del vicerè Uzeda: ed era
stato inaugurato il 28 ottobre del 1693 con un’opera musicale l’Innocenza penitente. Insignito del
titolo di regio, e fatto segno alle cure della città, nel 1787 era stato come
si è detto ingrandito e abbellito. Aveva sessantasette palchi in quattro
ordini, e trentadue file di banchi, divise da un corridoio. Il diametro
maggiore della sala, era di circa sedici metri e mezzo, il minore era di dieci
metri e mezzo. L’altezza della cupola era più di quindici metri. Il
palcoscenico era, pei meccanismi di quel tempo, abbastanza capace: aveva
infatti uno sfondo di più che venti metri; l’apertura o proscenio ne aveva
quasi dieci. La forma della sala, a semicerchio, leggermente allungata verso il
proscenio, l’arco armonico, o bocca d’opera, erano costruiti con tanta
perfezione acustica da fare del Santa Cecilia uno dei migliori teatri del
tempo, per le opere musicali. E tenne il primato in Palermo, finchè il Carolino
(ribattezzato poi al 1860 col nome glorioso di Bellini) tra il 1830 e il 1870
lo oscurò e gli si sostituì come principale.
Ma il Santa Cecilia ebbe
i suoi fasti; accoglieva i più celebri e le più celebri cantanti; e non
aspettava che le opere dei maestri più famosi invecchiassero nei teatri del
continente, per farle sentire sulle proprie scene: e qui per la prima volta nel
1784 fu data la commedia musicale del Cimarosa Giannina e Bernardone. Ora il teatro non esiste più; venuto in
potere dell’Ospedale Civico non fu più adibito a spettacoli, fu venduto e
tramutato in magazzino di ferrame; e le grossolanità dei facchini e il rumore
dei ferri urtati rumoreggiano là dove trillavano i gorgheggi di Nina Gabrielli
e di Marina Balducci e inebriarono gli animi le note del Paisiello, dello
Zingaralli, del Cimarosa. Habent sua ata,
anche i teatri!
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