Da lontano a intervalli
gemevano i funesti rintocchi di una campana, poi s’udì un cupo e lento rullar
di tamburi. Il doloroso corteo usciva dal Castello.
Innanzi, alcuni birri
armati di bastoni e gendarmi con le sciabole sguainate; dietro a loro la
compagnia dei confrati con la loro croce, poi i tamburini dei granatieri austriaci,
coi tamburi velati a bruno e scordati; un ufficiale coi capelli biondicci e una
faccia rincagnata, duro e dispettoso; un drappello di veterani, e indi fra una
doppia fila di granatieri, i condannati, uno dietro l’altro, vestiti di una
specie di sacco, il capo coperto di un velo nero, le mani legate dietro il
dorso, i piedi scalzi. Andava ognuno fra il sacerdote che lo andava confortando,
e un gendarme che lo sosteneva e lo guidava.
La strada lunga, lubrica
per la pioggia della notte, che aveva qua e là, lasciato pozze fangose, aveva
da una parte le case del Borgo, dall’altra il mare livido, che s’infrangeva fra
le secche.
Via via che il lugubre
corteo procedeva, i pochi passeggeri fuggivano per le strade traverse; qualche
bottega ancora aperta s’affrettava a serrare; chi non poteva sottrarsi
altrimenti, chiudeva gli occhi per non vedere: ma al suo orecchio giungeva il
cupo e lento battere dei tamburi, la voce lamentevole e cadenzata dei
sacerdoti, il grido supplice ed esortativo dei confrati che invocavan preghiere
per l’anima dei morituri.
Oltre la parrocchia di
Santa Lucia, si allargava un vasto piano, diviso in due dallo stradale che
conduce a Monte Pellegrino. La parte verso il mare prendeva nome dal convento
della Consolazione, che ne segnava il limite settentrionale, l’altra parte dove
ora sorgono le carceri, conserva il nome di piano dell’Ucciardone. Era la meta.
Altre milizie austriache
e borboniche erano sulla piazza della Consolazione; divise in due ali, l’una di
faccia all’altra, perpendicolarmente al muro del Convento, e in modo da
lasciare fra loro un largo spazio. Dietro di esse e al principio della piazza eran
dei gendarmi a cavallo; più addietro, dalla parte del mare, sulla strada del
Molo, i cannoni delle batterie da costa (sparite ora e mutate in magazzini)
avevan le bocche rivolte sulla piazza, e i cannonieri stavan con le micce
accese, minaccia di un popolo che non c’era!…
Fra l’una e l’altra
schiera di soldati in capo alla piazza, poco innanzi al bianco muro del
convento erano alcune panchette in fila; allo svolto del fabbricato due
carrettoni coperti da una grossa tela. Quelle e questi aspettavano le vittime.
Quando il corteo giunse,
a un cenno dell’ufficiale, i granatieri che lo accompagnavano si schierarono
fra le due ali, colla fronte al Convento, così da formare con queste, i tre
lati di un quadrato spazioso.
I condannati furono dai
gendarmi spinti dai innanzi, sino alle panche.
I sacerdoti
abbracciavano le vittime, e rivolgevan loro l’ultima parola di conforto; e un
drappello di ventisette veterani, su tre file, staccandosi dal grosso della
truppa, si schierava a venti passi dai condannati.
Forse qualcuno dei
condannati ripetè le supreme parole dei sacerdoti; essi stavano immobili, con le mani legate
dietro le reni, gli occhi serrati nella benda; ma indovinavano, sentivan già il
freddo della morte scendere nel loro sangue.
All’improvviso balenìo d’una lama, uno scoppio squarciò il silenzio, una
nube di fumo empì lo spazio; quei nove corpi si abbatterono per terra, coi
petti infranti… Non erano morti! I veterani borbonici li avevano solamente
feriti. Bisognò ricaricare le armi, e tirare ancora due volte su quegli
sventurati. Fu un assassinio; e non un giudizio.
Poi le soldatesche si raccolsero, si ordinarono, tornaron via; i preti si avvicinarono ai cadaveri, li benedissero, e si allontanarono anch’essi pallidi e convulsi; sul luogo infame rimasero, tra le panche rovesciate, quei nove corpi, che versavan sangue dalle orrende ferite; e pochi gendarmi e birri incaricati di fare eseguire l’ultimo ufficio.
Allora i confrati si avvicinarono; qualcuno si chinò per toglier le bende a quegli occhi che non vedevan più....
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