Quando era una fanciulla di diciotto anni, abitava in un grazioso castello, su la riva del mare poco oltre il feudo di Milicia. A le spalle del castello si alzava a balzi la montagna; ai lati poche catapecchie di pescatori, e poi di qua e di là le rive incantevoli dell’ampio golfo di Termini, ora sabbiose, ora irte di rupi.
Il castello aveva nome di S. Nicola.
Terre non ne aveva fuor che un piccolo bosco fra le balze, possedeva però un tratto di mare, dove, alla stagione adatta, si faceva la mattanza dei tonni.
Il castello era formato di una cortina quadrata; difesa da qualche opera interna agli angoli, e di un’alta torre cilindrica, merlata; che dominava la campagna e la marina.
Gli appartamenti non erano vasti.
Fuori del castello v’era una cappelletta dedicata a S. Nicola, donde forse aveva preso nome.
Il castello apparteneva allora ai principi di Cattolica, che l’avevano ereditato dai Crispo: ma nel 1748, per concessione del principe, vi abitava un nobile cavaliere, don Antonio di Casalgiordano, con la sua unica figlia, Virginia.
Era un uomo taciturno e severo, ma aveva una adorazione per la figlia: adorazione tuttavia, che non lasciava trasparire dall’aspetto.
Virginia non aveva conosciuto sua madre, della sua infanzia non ricordava nulla. Ancora bambina era stata posta in un monastero a Messina; a sedici anni il padre che ella vedeva in parlatorio tutte le domeniche, l’aveva ritirata e condotta in quel castello, dove essi vivevano come in un eremitaggio.
Pareva che don Antonio di Casalgiordano fosse geloso di quella sua figlia bella e modesta.
Di quando in quando però egli per gli affari del suo patrimonio si assentava due o tre giorni. Durante la sua assenza il castello era rigorosamente custodito, oltreché dai servi, da due terribili molossi, che non lasciavano avvicinare alcuno.
Era la consegna data alla servitù: per tutt’altro essa doveva ubbidire ciecamente alla fanciulla.
Ma Virginia non faceva pesare il suo governo.
Ella era buona e umana; e aveva anche ammansato e assoggettato con la dolcezza delle sue maniere, ma con la fermezza della sua volontà, i due molossi stessi.
Un pomeriggio tempestoso, in cui il mare, livido e sconvolto, pareva volesse scalzare gli scogli, e minacciava il piccolo villaggio, don Antonio e Virginia se ne stavano affacciati a una finestra, guardando lo spaventevole e stupendo spettacolo.
Tra i flutti, non molto lungi dalla terra, una tartana si dibatteva disperatamente.
Aveva l’albero spezzato. Gli otto uomini che la montavano, aggrappati ai banchi, per non farsi portare via dai marosi, facevano sforzi perché la fragile nave non si capovolgesse.
La furia del mare, le aveva fatto perdere la rotta, e la spingeva verso terra, ma l’equipaggio temeva di andare a picco fra le scogliere, e avrebbe almeno voluto dirizzarsi dove la spiaggia era sabbiosa.
La lotta di quegli uomini contro gli impeti del mare aveva qualcosa di grandioso nella sua tragicità. Essi non parevano atterriti dalla fierissima tempesta; forse la grandezza e l’imminenza del pericolo dava loro quella padronanza di governare la nave in una lotta disuguale.
Ma Virginia tremava; e a ogni sparire della nave sussultava e mandava un grido.
La nave infatti pareva a ogni nuova furia di cavalloni che ne fosse inghiottita; ma riappariva subito dopo sulle creste spumose, per ridiscendere e sparire un’altra volta.
Don Antonio guardava senza dar altro segno di commozione che un lieve aggrottar di sopracciglia e un serrar di mascelle.
Ma a un tratto disse:
- Si perderanno!... Van sopra certe scogliere nascoste... Bisogna salvarli.
Uscì dalla sala; scese giù nella corte, e si affacciò alla porta del castello; e guardò i pescatori che raccolti sulla spiaggia, muti, con gli occhi costernati, seguivano l’immane lotta fra la barca e il mare.
- Figlioli, – disse; – quella barca naufragherà... Bisogna salvare quegl’infelici!...
Nessuno rispose. Gli occhi si volgevano con dolorosa dubbiezza verso la furia dei marosi; ma nessuno osava affrontarli.
- Quattro uomini di buona volontà che mi seguano, non li troverò dunque fra voi?
Vi fu un momento di irrisolutezza.
Don Antonio disse:
- Andrò io solo!...
Lo seguirono tutti: don Antonio ne scelse quattro.
Buttarono nella barca delle corde e dei remi di ricambio, e la spinsero in acqua.
I marosi, rovesciandosi furibondi sulla sabbia, la risospingevano indietro: ma, entrati gli uomini nella barca, don Antonio al timone, gli altri quattro ai remi, e trascinata dalla risacca, giunse a guadagnare il largo.
Cominciò anche per gli audaci la lotta contro la tempesta. Pareva che il mare, adirato di quel tentativo di salvataggio, avesse rivolto la sua furia contro il piccolo legno per impedirgli di riuscire.
Don Antonio, saldo al timone, sereno e impassibile, governava quei quattro uomini, che sotto l’impero del suo sguardo, e animati dalla sicurezza del loro signore, parevano moltiplicarsi.
Dalla tartana scorsero quella barca che le onde sballottavano, e raddoppiarono alla loro volta le forze.
Un’ondata, però, più violenta delle altre, strappò il timone.
Essa non poté più guidarsi; e i marosi or la spingevano, ora la trascinavano via.
Non era più possibile governarla, e la catastrofe era imminente.
Il timone travolto, trasportato, venne sul dorso delle onde fin presso la barca. Don Antonio se ne accorse.
- Quei disgraziati, – disse, – non hanno più scampo!
E volto ai suoi uomini, aggiunse:
- Animo! da bravi!... Ancora poche bracciate, e gitteremo la corda.
Dalla tartana intanto gridavano al soccorso.
Virginia era rimasta nella sala, non immaginando che suo padre si sarebbe esposto a un pericolo così terribile: ma quando lo vide entrare nella barca; quando vide la barca in balìa delle onde; quando la vide scomparire quasi in un abisso, e ricomparire in vetta delle torbide spume, cominciò a gridare disperatamente e a invocare aiuto.
La servitù era accorsa al suo grido; e tutti si erano affacciati per vedere: ma nessuno ebbe il coraggio di correre, nessuno sapeva risolversi. Rimasero inchiodati alle finestre, attratti dallo spettacolo maraviglioso e agghiacciante.
Anche Virginia restò lì, con gli occhi fisi alla barca, immobilizzata dal terrore, invocando l’aiuto del cielo.
Qualche serva invocava la Vergine degli Annegati, promettendo un «viaggio» votivo e l’offerta di una torcia, se la Vergine facesse il miracolo di salvare la vita del padrone.
La barca intanto aveva superato la distanza che la divideva dalla tartana: i suoi rematori parevano stanchi dalla lotta tremenda sostenuta. Ma don Antonio sembrava dotato d’una virtù maravigliosa.
Nel momento in cui egli si apprestava a lanciar la corda, per salvare l’equipaggio della tartana, questa, sospinta dai marosi, si allontanò e andò a infrangersi contro una scogliera che or sì or no, appariva a fior d’acqua.
Andò in pezzi, come fosse stata di vetro.
Dalla barca si levò un urlo di dolore...
Luigi Natoli: Coriolano della Floresta. Seguito a I Beati Paoli.
Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di metà Settecento. L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1914.
Pagine 1387 (2 vol.) Prezzo di copertina € 30,00
Copertine di Niccolò Pizzorno
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