giovedì 13 ottobre 2022

Luigi Natoli: Il Carnevale a Palermo nel 1560. Tratto da: Il capitan Terrore.

Quel giorno era l’ultimo giovedì di carnevale, e la città era in festa più degli altri anni, perché Sua Eccellenza il Vicerè, che era il duca di Medinaceli, maritava le due figlie, e già si erano avuti cinque giorni di festeggiamenti; quel pomeriggio doveva aver luogo in Piazza Marina il grandioso spettacolo della caccia intrecciata con una rappresentazione e con una giostra. 
Allora la fantasia e il tripudio si sbizzarrivano oltre che con maschere isolate, con vere mascherate complesse, raffiguranti avvenimenti storici. Una si componeva di quattro o cinque personaggi forniti di una scala e un tamburo. Dove pareva loro che fosse il caso, si fermavano, e al rullo del tamburo, appoggiavano la scala a una finestra a cui si affacciassero donne ridenti e un uomo si arrampicava. Che dico un uomo? una specie d’uomo coperto da una finta faccia rossa come un gambero cotto, con certe labbra da asino, grossi zigomi anch’essi animaleschi, coperto il capo da un elmo o da qualcosa che arieggiava l’elmo impennacchiato di fiori di canna, armato di una spada di legno, il quale braveggiava strepitando buffonescamente e facendo sbellicar dalle risa la folla che lo seguiva e le persone affacciate. A un tratto precipitava senza però farsi nulla di male, perché gli altri compari gli tenevano una coperta sotto. E qui nuove risa, nuovi schiamazzi e gettito di pezzetti di carta tagliata minutamente, che dicevano “pittiddi”, forse dal francese “petit”, e chiamati ora coriandoli. 
Quella maschera aveva un’origine storica, della quale si era perduto il significato: doveva rappresentare il vecchio Bernardo Cabrera che dava l’assalto allo Steri per impadronirsi della giovane e bella vedova regina Bianca, della quale si era innamorato. Ora si chiamava la mascherata del “Maestro di campo”, come dire del Generale. Si sa che la regina Bianca, sorpresa nella notte dagli armati di Bernardo, fuggì seminuda, e che Bernardo trovando vuoto il letto, si arrabbiò ma poi involtandosi nelle coperte ancor tiepide, esclamò: – “Non importa che la pernice sia fuggita, il nido è ancora caldo”.
Il popolo s’era vendicato, mettendolo in burletta, ma nel corso di un secolo e mezzo la memoria del fatto si era contaminata. 
In altro punto, dove era una piazza levavano da terra un castello di legno dipinto a conci, con merli, tra i quali apparivano schierati Mori o Turchi, armati di spade e lance, che, gridando, le agitavano al sole. Contro di loro erano Cristiani. La folla degli spettatori, enorme e fluttuante, aspettava schiamazzando. Era il “gioco del Castello”, che forse rievocava i fasti della conquista normanna, forse la presa di Palermo o d’altra città, verità storica alteratasi romanticamente, o intrecciatasi con altre imprese. Cominciava col mandare gli ambasciatori, seguiva con le varie fasi del combattimento; e finiva con la presa e col trionfo dei Cristiani e con un balletto generale. 
Una carrozza saliva pel Cassaro. Chi immagina le carrozze d’allora simili a quelle che si vedevano un trent’anni fa, o come quelle che fanno pompa di sé nel Museo nostro, s’inganna. Erano grandi come queste, a forma di casse aperte ai lati, con sedili. Non avevano molti ornamenti, solo una frangia di seta in cima allo sportello; non vetri, non fanali, non molle; il cocchiere sedeva su una gualdrappa ornata dello stemma della padrona. Dico padrona perché in quel tempo le carrozze, erano adoperate soltanto dalle signore. 
La carrozza dunque saliva pel Cassaro lentamente tra la folla delle maschere che facevano un chiasso tale che il cocchiere era costretto a frenare i cavalli che con le orecchie affilate, nitrendo, intridevano di spuma il freno. Accanto alla carrozza cavalcava un gentiluomo giovane e bello, il cui mantello era così lungo ed ampio da coprire il cavallo. Egli scambiava delle parole con colei che stava dentro la carrozza e che era una giovane donna avvolta anch’essa in un manto scuro col cappuccio da cui era coperto il suo capo, ma non sì che il volto grazioso e vivace non ne apparisse interamente. Si chiamava donna Laura Serra, e il cavaliere, don Galvano di Valverde. 
Egli l’accompagnò dinnanzi il portone di don Cola Bologna, che era in un vicolo (allora si diceva “strada”) corrispondente a quello detto di Castelnuovo; e lì, sceso da cavallo, e aiutata anche lei a discendere, salutatala con un inchino cerimonioso, risalì in arcione, e tornò indietro. Il Cassaro (allora si chiamava così, perché nel 1560 non era stato ancora prolungato, e giungeva a Sant’Antonio) era gremito di gente, per lo più mascherata, che faceva un chiasso assordante. Le maschere si prendevano libertà non consentite in tempi ordinari e forse risalenti agli antichi saturnali; e venivano a frotte. 
Le oche, vestite di bianco con due sottane, aprivano gli enormi becchi innanzi agli altri, come se volessero ingoiarli; e quelli arretravano ridendo. Una “mamma Lucia” andava correndo, e fingeva di somministrare con un grosso mestolo una minestra ipotetica da un pignattone; in realtà cacciava sotto il naso di chi incontrava la polvere contenuta nel mestolone per farli starnutare. Le maschere si succedevano; erano per lo più caricature della vita contemporanea come il Dottore con un berrettone, l’Astrologo col cappello altissimo a punta, i Mori… Ma tutte erano d’accordo nel fare un baccano straordinario; alcune osavano perfino montare in groppa ai cavalieri che incontravano, o fermare una lettiga, una carrozza, sberrettandosi poi e facendo smorfie. 
Galvano procedeva e spronava, ma il cavallo era più giudizioso di lui; nitriva, e con la testa respingeva di qua e di là i pedoni. Tutti erano allegri pel vino bevuto, ma molti erano addirittura ubriachi; qualcuno si fermava innanzi al cavallo con le gambe larghe, e intonava una canzone; qualche altro si adirava e inveiva contro cavallo e cavaliere: il nobile animale scansava l’uno e l’altro, e i meno ubriachi li tiravano da parte. Ma Galvano non pareva cosciente del pericolo. Aveva dinanzi agli occhi l’immagine deliziosa di donna Laura, del suo sorriso, che le scavava due fossette, e scopriva appena gli incisivi bianchi come perle piccoli, adorabili. E gli occhi? Corvini con riflessi di oro, che quando parlava, si accendevano e sfolgoravano; e suscitavano nel cuore una commozione, un languore, un annullamento della volontà, per cui l’uomo pareva di essersi fuso con lei, di non pensare che con lei, di non respirare che la stessa aria di lei. Lei! sempre lei!


Luigi Natoli: Il capitan Terrore. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1560. 
L'ultimo romanzo scritto dall'autore, pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1938 e fedelmente ricostruito in questo volume. 
Pagine 477 - Prezzo di copertina € 21,00
Copertina e disegni di Niccolò Pizzorno.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia).
Disponibile su tutti gli store online e nelle migliori librerie. 

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