lunedì 22 novembre 2021

Luigi Natoli: Don Calcedonio e il pupo Fioravante. Tratto da: Fioravante e Rizzeri

Don Calcedonio, con le mani sotto l’occipite, guardava in alto, e contava i travi del soffitto. Era una cosa abituale in lui; non già che lo facesse di proposito, ma appena si sdraiava supino con gli occhi in su, subitamente si metteva a contare i travi del soffitto. Quella mattina aveva lucidato l’armatura di Fioravante; elmo, corazza, schienali, bracciali e cosciali di nichel, rabescati d’ottone dorato, risplendevano come argento e oro. Fioravante era disteso su un’altra panca, i tre fili di ferro che gli reggevano il capo e le braccia, congiunti insieme, gli davano una posa da guerriero aspettante; la visiera alzata gli scopriva il viso immobile con gli occhi fissi; la veste, corta al ginocchio, verde, color della speranza, ornata di tre file di passamani d’oro, gli pendeva in pieghe simmetriche; e la spada, la terribile Durlindana, che poi avrebbe ereditato Orlando, gli giaceva al fianco. Oh, era un bel paladino Fioravante. Tutta la mattina don Calcedonio l’aveva occupata con lui. Non conosceva risparmio per i paladini; egli vi spendeva anche più che non potessero le sue forze; alcune armature gli costavano fino a cinquecento lire: quella di Orlando per esempio, tutta dorata, con i gomiti, le spallacce, le ginocchiere che parevano argento, e lo scudo con la croce d’oro, che rifulgeva come un sole. Ma Orlando era il paladino maggiore, e conveniva vestirlo meglio degli altri; la sua veste bianca pareva intessuta di gigli e i ricami parevano una pioggia di botton d’oro. Peccato, che avesse gli occhi storti!
Ma don Calcedonio non pensava a lui. Pur continuando a contare le travi del soffitto, la sua mente era piena di Fioravante e di Mambrino, del quale aveva nella mattinata ripulito l’armatura. Questa era diversa da quella di Fioravante, perché Mambrino era saraceno, e i saraceni, si sa, vanno vestiti diversamente. Hanno l’elmo senza visiera, con un turbante attorcigliato e una specie di chiodo in cima, donde scaturiscono le piume. E hanno le brache corte fino al ginocchio, e la scimitarra.
Veramente i romanzi di cavalleria che egli leggeva, dicevano che i guerrieri saraceni erano vestiti come i cristiani; le stesse armature, come lo stesso linguaggio cavalleresco, gli stessi usi; la differenza era che i cristiani giuravano per Gesù e per la Vergine Maria, i saraceni per Macone, Maometto, Apolline, Belial. Ma don Calcedonio vestiva i cavalieri cristiani come i giostranti del secolo XVI, e i saraceni come i turchi dei secoli posteriori. Era tutt’uno per lui!
Aveva ripulita la corazza di Finaù, figlio del re Balante, che regnava in Scondia; una bell’armatura, tersa e lucente, che faceva abbagliare a mirarla, con un sole raggiante in mezzo, e l’elmo sormontato da una pennacchiera rossa, che ondeggiava al minimo movimento. 
Quella sera Fioravante avrebbe combattuto Finaù; era un duello mortale; si sapeva che Finaù sarebbe stato ucciso, nondimeno il duello si presentava agli spettatori dubbio, nonostante fossero in due a combatterlo, Fioravante e Tibaldo di Lima. L’armatura di questo cavaliere era già pronta dal giorno innanzi. Era di ottone, e pareva d’oro, ma rimaneva di minor valore di quella di Fioravante; anche il gonnellino non aveva i ricami di quello; era pavonazzo, filettato di oro. 
Don Calcedonio teneva gli occhi al soffitto, ma la sua mente si perdeva dietro ai paladini; correva dietro a loro e studiava le parole più sonanti e i gesti più appropriati. Dove li metterebbe? Fioravante a destra, Finaù a sinistra, Tibaldo in mezzo. Combattevano. Ta ta tata, ta ta tata, ta ta tata, ta ta ta, ta a a a. Don Calcedonio a poco a poco si addormentò, e nel sonno continuava il combattimento. I pupi erano sul palcoscenico illuminato; la scena rappresentava una boscaglia, nella quale erano schierati gli eserciti, da una parte cristiani dall’altra saraceni. Folla. Erano vestiti poveramente, elmi e turbanti, e in mano avevano la lancia. Stavano immobili; poi i saraceni sarebbero fuggiti, e le lancie e le spade ne avrebbero fatto scempio. 
(Nella foto: antichi pupi Orlando esposti al museo Pasqualino di Palermo) 


Luigi Natoli: Fioravante e Rizzeri – Romanzo ambientato nella Palermo del 1920, ricostruito e trascritto dalle puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1936, con premessa dell’autore tratta da un articolo dello stesso Giornale pubblicato il 16 dicembre 1936. È ispirato alle storie di Buovo D’Antona e dell’opera dei pupi, nello specifico del re Fioravante e del suo scudiero Rizzeri, e le avventure di Fioravante riproduce attraverso un oprante, don Calcedonio; e l'antico si intreccia con il moderno; e le avventure della giovane figlia Lillì fanno contrasto con quelle di Drusolina, e quell'onesto puparo sembra foggiato con l'anima dei suoi pupi... (dalla prefazione dell'autore) 
Pagine 308 – Prezzo di copertina € 19,00
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