mercoledì 17 novembre 2021

Luigi Natoli: Il bandito Gian Giorgio Lancia e la lettera che scrisse a don Galcerano Corbera. Tratto da: La dama tragica

Il secolo XVI fu  in Sicilia il periodo classico del banditismo. Storici e cronisti lasciarono memoria delle gesta compiute da alcuni banditi, forse i più famosi, nei tre Valli della Sicilia. In quel Caso di Sciacca, che rimase nella tradizione popolare, una banda di Albanesi fu assoldata dal conte don Sigismondo de Luna; in un altro caso, che fu detto dei Barresi, men celebre del primo, un nobile signore di Naro, Enrico Giacchetto, era a capo d’una banda di cento cavalli, coi quali, dice un cronista dei tempi, «faceva allo spesso gesti eroici e singolari». Durante il viceregno del duca di Medinaceli empì il regno di ammirazione e spavento un bandito, Vincenzo Agnello, che comandava una banda di quaranta cavalli, con suo trombetta e suo alfiere; e aveva nello stendardo dipinta l’immagine della Morte. Innamoratosi di una schiava, e fattala sua, dimenticò sè stesso negli amori, fu sorpreso dal capitan d’arme Frisone, e ucciso in combattimento. Era valorosissimo e audace fino al punto da venire fin sotto le mura di Palermo per punire un cavaliere di casa d’Afflitto. E una volta, andando il Vicerè in visita del regno, con seguito di cavalleggeri, Vincenzo Agnello gli volle rendere onore: schierò i suoi quaranta cavalieri sopra un poggio, spiegò l’insegna e fe’ dare nella tromba, che era poi una buccina.
Ai tempi di Marcantonio Colonna s’era formata un’altra banda, di vecchi briganti, avanzi di altre bande, sfuggiti alla giustizia, e di nuovi; e s’era raccolta intorno a un giovane di Randazzo, Gian Giorgio Lancia, contadino, gittatosi in campagna, come pur troppo avviene il più spesso, per aver voluto vendicare una sopraffazione, un torto, un’offesa all’onore.
La fama del valore di Gian Giorgio faceva accorrere sotto di lui quanti erravano nei boschi, vivendo di ladronecci e di assassinii.
Nel suo maggior fiorire, cioè alcun anni dopo, la banda si componeva di duecento uomini a cavallo, che davan battaglia alle compagnie dei cavalleggeri mandate contro di loro. In quei primi anni la banda aveva poco meno di un centinaio di uomini: due trombetti, uno stendardo, un segretario, che era un prete datosi alla campagna, per aver ucciso il seduttore di sua sorella. Segretario e Cappellano. Campo alle imprese era il Val Demona; ma in quei giorni, valicato il Salsa, la banda scorazzava nel Val Mazzara, incutendo terrore. Viveva imponendo tributi ai signori, saccheggiando i castelli e le terre di coloro che si rifiutavano o non eran solleciti; depredando gli armenti e le greggi dei ribelli agli ordini di Gian Giorgio. Dormivano nei feudi, sicuri da ogni sorpresa; sapevano di trovare dovunque di che banchettare, alla maniera degli eroi omerici..
La banda si era spinta nel territorio di Corleone, e si era impadronita delle riscossioni del fisco, che si mandavano a Palermo; Don Galcerano doveva appunto andare a debellarla. Impresa pericolosa e dubbia. Molti capitan d’arma in Val Demone avevano perseguitato la banda. Vi lasciavano morti parecchi cavalleggeri, senza riuscire a circondare e a prendere i banditi, che a ogni insuccesso della giustizia, diventavano più audaci.
Galcerano stava così, tentando di guadagnarsi la confidenza del vecchio, quando ecco di fra le macchie sbucare un grosso cane bianco e villoso, che data un’occhiata bieca a Galcerano, e ringhiando, si avvicinò al pastore scodinzolando, e strusciando la testa sui ginocchi di lui. Il pastore lo accarezzò, e ponendogli la mano sul collo, toccò una cordicella.
- Toh! t’hanno legato?...
Girò la cordicella, per trovare il nodo. Nel nodo era infilato un rotolino di carta. Galcerano se ne accorse.
- Che cos’è cotesto?
- Umh! chi ne sa niente?
- Dammi quella carta... 
- Vossignoria la prenda pure. Tanto io, non so leggere, e non saprei che farmene.
Disse queste parole con una indifferenza tale che Galcerano non dubitò della loro sincerità. Prese il rotolino, lo svolse; era una lettera, chiusa con un po’ d’ostia, ed era diretta proprio a lui. 
Lesse con stupore, due volte, l’indirizzo «Al molto magnifico e illustrissimo signore don Galcerano Corbera barone del feudo del Miserendino».
E chi poteva avergli scritto? E chi poteva mandargli la lettera con quel messo? Il cane era certamente del pastore: chi glielo aveva preso?
Aprì la lettera e lesse:
«Magnifico e illustrissimo Signore e Padrone colendissimo.
«Vi scrivo io Giovanni Giorgio Lancia di Randazzo, capitano della grande compagnia, e vi mando prima di tutto il mio saluto. E poi vi dico, che io Giovanni Giorgio Lancia voglio vincere i miei nemici in giusto combattimento, di faccia a faccia, senza tradimenti; e se ci troveremo di fronte un giorno, vi dimostrerò che io non tremo di nessuno, fuor che di essere creduto un vile. Perciò vi faccio sapere che nei vostri cavalleggeri ci sono due traditori che vi vogliono ammazzare, nel primo scontro con me, per far poi credere che voi siete stato ucciso da me, e così essi non avranno alcuna pena dell’assassinio. Non vi dico i nomi dei due traditori, che sono stati prezzolati da qualche vostro nemico; voi state in guardia; al primo attacco mandate avanti i vostri cavalleggeri, e non ne lasciate nessuno dietro di voi. Ascoltate il mio consiglio, e non vi fidate troppo. Siete giovine, e non sapete che i vostri cavalleggeri sono più banditi e «stradari» dei miei. E, vi saluto, con la speranza di misurarmi con voi».


La dama tragica – Romanzo storico siciliano ambientato a Palermo nel 1560, al tempo del vicerè Marco Antonio Colonna, di donna Eufrosina Corbera e della loro storia d’amore.
L’opera è la trascrizione del romanzo originale pubblicato dalla casa editrice La Gutemberg nel 1930.
Pagine 604 – Prezzo di copertina € 24,00
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