mercoledì 31 marzo 2021

Luigi Natoli: Quel martedì, 31 marzo 1282... Tratto da: Il Vespro siciliano. Romanzo storico ambientato nella Sicilia del 1282

Quel martedì, 31 marzo, la giornata era così bella e serena, e splendeva un sole così tepido e l’aria era così olezzante di mille profumi, che pareva invitasse anche i più poveri, i più tristi, i  più angustiati a lasciar l’ombra e la tetraggine della città, per correre ai campi; per sentire almeno la libertà del sole e dell’aria, bere la giocondità della natura festante di fiori e di trilli.
E dalle tre porte meridionali della città: la porta Mazzara, la porta di S. Agata e la porta delle Terme (diventata poi di Termini) poco dopo il mezzodì uscivano tre fiumane di popolo, a gruppi, a comitive, di ogni ceto e condizione. Le donne vestite a festa, con gonne dai colori vivaci, quali tutte d’una tinta, quali variate; le popolane della Kalsa e del quartiere di Denisin, ancora attaccate al vecchio costume musulmano avevano il capo avvolto in un velo bianco, che lasciava scoperti gli occhi e il naso, e dava ai volti una espressione di misteriosa bellezza, agli occhi un fulgore umido e voluttuoso. Le altre, specialmente della borghesia o della nobiltà, portavano il viso scoperto, e la glimpa su le spalle, più o meno ricca di nappe e fiocchi di seta e d’oro.
Le dame e i cavalieri, venivano a cavallo; e i cavalli, guidati a mano da scudieri o da schiavi, si pavoneggiavano nelle gualdrappe e scotevano i ricchi pennacchi svolazzanti sulle loro teste. Sotto i passi dei cavalli e dei pedoni si levava una leggera nuvola di polvere, che avvolgeva i più lontani; ma dentro la nube balenavano al sole i riflessi della seta e degli ori e le tinte vivaci si attenuavano in sfumature delicate e un poco grigiastre.
Di quando in quando la folla si sbandava di qua e di là, sotto le siepi o i muriccioli dei poderi, per lasciar passare i sergenti del giustiziere, o qualche signore francese. Essi prendevan per sè quasi tutta la larghezza del sentiero, ributtando prepotentemente con ingiurie, spintoni, colpi del fodero della spada o di bastone, i popolani e i signori, per aver libero il passo; gittando qualche parola audace alle donne che apparivano loro più belle e desiderabili.
Gli uomini stringevano i denti, seguivano con sguardo lampeggiante d’odio quei prepotenti e tacevano. La giornata era bella, e volevan godersela.
Il piano di Santo Spirito s’andava empiendo di popolo. Qua e là si piantavan tende per difendersi dai raggi del sole e sotto le tende, nell’erba fresca e molle, si sedevano intere famiglie. Traevano da ceste e da bisacce le provviste; accendevano fuochi in focolari improvvisati con sassi, e vi ponevano a cuocere le vivande. Dalle fiamme si levavano sottili spirali di fumo, che s’allargavano in alto e si disperdevano, portando dovunque l’odor dell’arrosto, e qualche volta un misto di bruciaticcio. Qua e là si improvvisavano barracche dove si vendevano dolciumi; piccole paste in forma d’agnello o d’altro, nelle quali era, come incastonato, un uovo sodo; o biscotti di farina e miele. Altre barracche odoravano di vino. Dalle anfore di terracotta smaltata, dalle bocce di vetro che avevano nome garaffe, il vino usciva nelle tazze, nelle coppe, nei boccali di terracotta, gorgogliando, spumeggiando, sfolgorando riflessi di fiamma, promettendo l’oblìo e l’ebbrezza.
Si aggiravano venditori ambulanti traendosi dietro l’asinello con lo «zimmile» carico di lattughe, e con grandi orciuoli pieni d’acqua, gridando con voci cadenzate. Dei giullari vestiti stranamente, con un liuto o una guidema pendente sul petto, saltarellando con strani e ridicoli lazzi, si fermavano or dinanzi una or dinanzi altra comitiva, sotto questa o quella tenda, e cantavano qualcuna delle canzoni che più piacevano al popolo. Canti spesso un po’ sboccati e comici, o appassionati; più raramente tristi.
E intanto giungeva sempre altra gente. Dei popolani armati di bastoni si spingevano innanzi le donne, come un pastore fa delle pecore, sceglievano il posto, le mettevano a sedere; andavano e venivano dalle barracche al posto scelto. Si potevan distinguere i vari quartieri della città; chè in quel tempo vi erano fra un quartiere e l’altro quasi dei confini, e per poco gli abitanti dell’uno non consideravano come stranieri quelli dell’altro, fino al punto da non consentir matrimonii fra persone di quartiere diverso. Così nel vasto piano si raggruppavano per parentele e quartieri; e ogni quartiere si riconosceva da una foggia particolare di vestire e di scelta di colori. Là erano quelli della Kalsa, più in qua quelli di Siralcadio; oltre, quelli del Cassaro, i più ricchi e cittadineschi; da questa parte, presso la chiesa, quelli dell’Albergaria, i più clamorosi e litigiosi: a un altro lato erano i pisani, e più giù gli amalfitani, e accanto i genovesi, e i greci del sobborgo marittimo, le colonie italiche cioè o gli avanzi dell’antica popolazione.
Sorgeva in mezzo, dominatrice, la chiesa con le sue ogive bicrome, intrecciate fra loro, lungo i fianchi e sulle absidi, tra le quali si aprivano le finestrelle archiacute; e lanciava la torre del campanile, quadrata, ornata di qualche colonnina impegnata agli spigoli; sotto la quale si apriva il piccolo portico, sorretto da pilastri.
Dalla porta spalancata veniva fuori l’odor dell’incenso, e si travedeva l’altare illuminato da ceri. Dei frati apparivano sulla porta, ristavano sul portico, vestiti nelle loro bianche tonache, e guardavano quello spettacolo annuale, sempre nuovo e bello, che con la varietà dei colori e delle luci, col movimento delle scene, la vivace esuberanza della vita animava per un giorno la solitudine e il silenzio del loro eremitaggio.
Intorno si stendeva la corona dei monti, quali percorsi dal sole, quali velati dall’ombra, un’ombra azzurrina e vaporosa; monte Cuccio innalzava il suo vertice velato dai raggi, e più in giù a tramontana, erto sul mare, torreggiava il Pellegrino.
In mezzo alla vasta conca, tra il verde dei giardini si vedevan bene le mura e le torri della città, e la mole grigia e severa del palazzo reale, con le sue alte e formidabili torri; e le chiome dei palmizi, che talvolta sorpassavano l’altezza delle mura.
Damiano s’era recato anche lui alla festa, con tre o quattro amici; avevano una guidema e una zampogna di canna, e parevano non d’altro solleciti che di divertirsi; e andavan trascorrendo fra quelli dell’Albergaria e del Cassaro senza fermarsi a lungo, guardando, sonando, sgambettando, ed evitando destramente di incontrarsi coi sergenti e i soldati francesi e provenzali, che andavano arrogantemente su e giù per il prato, fra le comitive, le tende, le barracche.
Il Giustiziere aveva sguinzagliato a Santo Spirito un duecento di quei, più ribaldi che soldati, il fior fiore dei più prepotenti, per tenere a freno quella moltitudine e sorvegliare se mai qualcuno avesse armi contro il divieto. Essi andavano fieramente, coi pugni sul fianco, le spade battenti sui polpacci, vestiti di maglia d’acciaio, o di corazza, con gli elmi luccicanti al sole. Si fermavano, dove loro piaceva meglio, toglievano dalle mensa apparecchiate sull’erba quel che loro talentava o bevevano, senza pagare; somministravano qualche calcio, minacciavano  di segar la gola a chi non si lasciava strappar dalle mani quel che stava mangiando.
Damiano seguiva con l’occhio or questo or quel gruppo di soldati. Talvolta si levava un battibecco più o meno rumoroso, i sergenti e i soldati, seguendo il loro costume spingevano la loro audacia sulle donne. 



Luigi Natoli: Il Vespro siciliano – Romanzo storico ambientato nella Palermo del 1282, al tempo di una delle più famose rivoluzioni della Storia di Sicilia. L’edizione, interamente restaurata a iniziare dallo stesso titolo, è la fedele trascrizione del romanzo originale, pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1915. Con la sua perizia di grande storiografo e narratore, l’autore ci consegna uno dei capolavori della letteratura popolare mondiale che nulla trascura di quel periodo storico come l’orrenda strage di Agosta, le trame politiche cospirative dei baroni siciliani, l’orgoglioso episodio di Gamma Zita a Catania, la valorosa resistenza della città di Messina al dominio francese degli Angiò. Il romanzo ricco di fatti e personaggi realmente accaduti o esistiti, ci regala l’indimenticabile eroe Giordano De Albellis, intollerante alle ingiustizie, innamorato della sua terra, della libertà e della sua bella Odette. 
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 945 – Prezzo di copertina € 25,00
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