giovedì 22 ottobre 2020

Luigi Natoli: Tullio doveva contentarsi di veder la sua Rosalia da lontano... Tratto da: Braccio di ferro avventure di un carbonaro. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1820

Che folla pel Toledo! E sì, che quell’anno – 1820 – il mese di giugno era in Palermo più arroventato del solito. 
Ma era giorno di festa; e la folla aspettava il passaggio di una processione promossa dai padri Gesuiti in onore di S. Luigi Gonzaga, alla quale prendevano parte tutti i giovanetti delle loro scuole. La processione doveva percorrere la lunga, diritta e bella strada, che dal cinquecento in poi era stata chiamata col nome del vicerè don Garzìa de Toledo e lo serbò fino al 1860, quando le sostituirono quello di Vittorio Emanuele. Era allora la strada principale della città; la via Maqueda che la taglia in croce, bella e lunga ugualmente, non avea che il secondo posto. Le più ricche botteghe, i palazzi più cospicui, le chiese più belle erano – e sono ancora – sulla via Toledo; in essa palpitava la vita della città: ma l’aspetto era allora un po’ diverso da quello d’oggi, perché molte botteghe avevan sulla porta una pensilina, – con voce dialettale “pinnata” – che talvolta era sorretta da pilastrini; e avean la porta divisa in due parti ineguali da una colonna: dalla parte minore sporgea per circa due palmi sul marciapiedi il banco: e pensiline e banchi ingombravano e impedivano alla vista di correr liberamente. In compenso offrivan ombra  e sedili alla folla, nei giorni di festa, e riparo in quelli piovosi. 
Quel giorno sotto le pensiline e sui banchi si assiepava la folla. Era un alternarsi, un sovrapporsi, un confondersi di vesti bianche, rosa, cilestri trasparenti e vaporose; di scialletti di crespo di seta che parevan tessuti di nuvola; di cuffie bianche e di cappelloni di paglia; uno sventolìo di piccoli ventagli d’osso o d’avorio luccicanti di pagliette d’argento; interrotto, frammezzato dalle macchie turchine o verdi o color di foglia secca, che mettevano i vestiti maschili fra quelli donneschi. La stessa folla di colori si vedeva agli sbocchi dei vicoli, lungo la via, su nei balconi; e per tutto era un cicaleccio, un ronzìo confuso, sul quale a quando a quando irrompevano più forti e distinte le grida dei venditori ambulanti d’acqua gelata, di semini di zucca e di fave tostate, di ciliege, o di dolciumi. Quelle grida cadenzate, musicali, metaforiche e gioiose sgorgavano sul ronzìo afoso come freschi zampilli nell’arsura del sole. 
Ai Quattro Canti la folla era più densa, trattenuta dai granatieri, schierati di qua e di là, per lasciar libero il passo alla processione, e sorvegliata dai birri armati di bastone: ma si accalcava intorno ai palchetti rizzati sulle fontane, dai quali i musici avrebbero intonato “la cantata”; e dinanzi al Caffè di Sicilia, dove si faceva un gran sorbire di gremolate e di acquetta d’amarena. 
Tullio Spada, come ogni buon cittadino palermitano amante di feste e di spettacoli, attraversati i Quattro Canti, andò a fermarsi a pochi passi di lì, quasi all’angolo della “Calata dei Musici” che metteva in comunicazione la piazzetta Pretoria con la via Toledo: e si chiamava così, perché vi era il convegno dei professori d’orchestra e dei virtuosi di canto, e, per dirla con una parola moderna, la borsa di lavoro o il sindacato di quei disperati. 
Egli avea tre ragioni di fermarsi in quel luogo: prima di tutto perché i Quattro Canti erano il punto di riunione, di sosta, di ritrovo di tutti i cittadini e dei “regnicoli”, ossia dei provinciali che venivano a Palermo; il cuore, e per certi aspetti, anche il cervello della città; poi, perché, essendo un bel giovane elegante, non gli dispiaceva essere ammirato; e infine – questa era la vera ragione principale e più forte – perché di lì guardando un balcone al primo piano d’un palazzo di fronte, poteva vagheggiare Rosalia. 
Rosalia era la sua fidanzata, e stava al balcone aspettandolo. Una simpatica e graziosa fanciulla di sedici o diciassette anni, capelli neri che incorniciavan l’avorio del volto ovale, ed occhi nerissimi, che avevano nella profondità appassionata dello sguardo qualcosa di timido e dolce. 
Oh, che bisogno aveva Tullio di vagheggiarla da lontano, se era la sua promessa sposa? Gli è che allora in Palermo, e peggio ancora nel resto della Sicilia, pareva una cosa sconveniente, quasi scandalosa lasciar i fidanzati vedersi da vicino e parlarsi, per qualche ora al giorno...
Quando i genitori della fanciulla erano di buon cuore e di manica larga concedevano al giovane di venire una volta la settimana, per un’oretta, a visitare la promessa sposa, e a dirle, per esempio: - “Come state?” – o – “che bel tempo!” – ovvero: – “Avete bevuto la cioccolata?” e simili cose graziosissime e divertenti. Oggi ce ne meravigliamo e ne ridiamo; ma allora, nella borghesia semplice e patriarcale, prudente e scrupolosa, parevan le cose più naturali e non ne ridevano; ci vivevano tranquilli e felici. 
Quel giorno sebben festivo, non era uno di quelli assegnati per la visita, e Tullio doveva contentarsi di veder la sua Rosalia da lontano, scambiar con lei qualche sorriso, qualche gesto furtivo, e dirsi con gli occhi tutte le parole tenere che le bocche non potevan pronunziare. 

Luigi Natoli: Braccio di ferro avventure di un carbonaro. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1820.
Riproduzione fedele dell'opera originale pubblicata in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1930
Copertina e illustrazioni interne di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito ibuonicuginieditori.it (spedizioni in tutta Italia)
Disponibile su Ibs, Amazon, e tutti i siti vendita online.
In libreria presso La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133, Palermo)

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