mercoledì 21 ottobre 2020

Luigi Natoli: Parlamento e Deputazione. Tratto da: Palermo al tempo degli Spagnoli 1500-1700

Se il detto che in Sicilia i Vicerè rosicchiavano, in Napoli mangiavano e in Lombardia divoravano era vero, gli è perché in Sicilia non potevano fare tutto quello che volevano. Gl’intrighi, la corruzione procacciavano loro qualche vantaggio, ma erano vincolati sempre dalla legge più che dalle condizioni economiche dell’Isola. I vincoli erano il Parlamento e la Deputazione del Regno, che ne era l’espressione e ne curava l’esecuzione di quanto quello deliberava. 
Il Parlamento di tre bracci, l’ecclesiastico, il militare e il demaniale, era cagione d’orgoglio pei Siciliani. Giuseppe Toppoli scrivendo alla corte di Madrid una relazione sullo stato della Sicilia per incarico del duca d’Ossuna, potè dire con vanto che “tra li principati e le monarchie” non restavano che “questi due Parlamenti, cioè quello di Londra e quello di Sicilia, che conservavano il loro diritto.” Questo diritto era principalmente di valutare e di stabilire, secondo le possibilità del Regno, le imposte, che andavano in parte al Re, in parte a benefizio del Regno per la difesa e le vie di comunicazione, e in parte, ma piccola, per assegni alle persone. Il Re e per lui i Vicerè non avevano in diritto facoltà di imporre; potevano chiedere una somma, ma stava al Parlamento di deliberarla e anche diminuirla, e anche negarla. Questa somma che prendeva il nome aragonese di “donativo” divisa in “tande” (o quote) si riscuoteva in un certo numero di anni; ma alle volte si aggiungeva un donativo straordinario, e il peso maggiore estingueva le risorse del Regno. 
Poiché i Vicerè dimoravano per alcuni mesi a Messina e a Catania, il Parlamento non ebbe una sede stabile; solo nell’ultimo cinquantennio del secolo XVI fissò la sua sede in Palermo. Però nei due secoli 1500 e 1700 s’adunò in Palermo settantasette volte, in Messina diciassette e solamente due in Catania. E neppure ebbe dapprima un termine, e solo sul cadere del ‘500 si adunò ogni tre anni, salvo il caso di Parlamenti straordinari che potevano riunirsi secondo il bisogno. Ed i tre bracci che lo componevano non si adunavano tutti insieme e nel medesimo luogo che nella seduta inaugurale, che si faceva coll’intervento del Vicerè e con un discorso, diciamo così, della corona pronunziato dal Protonotaro del Regno. 
Non furono sempre lisce le sedute del Parlamento; spesso accadevano liti fra i membri d’una medesima classe. Per esempio, quello sollevato dall’arcivescovo di Messina nel 1556, che pretendeva di sedere al primo posto, contro quello di Palermo, e che i suoi rappresentanti conservassero lo stesso diritto. La quistione fu lunga. Al fine si deliberò che il primo posto toccava all’Arcivescovo di Palermo, ma che i rappresentanti occupassero il posto dei rappresentati. 
Dal Parlamento era tratta la Deputazione del Regno, tre deputati per ogni braccio, che nel suo massimo sviluppo furono quattro, ed ebbe costituzione stabile e leggi proprie. 
Essa non solo curava la esatta osservanza delle leggi votate dal Parlamento, ma poteva anche opporsi al Vicerè e al Parlamento stesso, quando violavano o menomavano alcuna delle leggi o delle immunità giurate. 
Perché, nonostante che Scipione de Castro ammonisse il Vicerè Colonna che “si guardasse bene dal fare Deputati persone testarde, catoniane, popolari, perché steriano sempre alle mani con lui”, i conflitti sorgevano e quasi sempre col trionfo della Deputazione. Rimase celebre quello scoppiato nel 1610 fra il Vicerè Villena e i deputati conte di Comiso e marchese di Limina. Questi furono arrestati, perché non avevano sottoscritto un mandato di sessantamila scudi in favore del Vicerè, che questi richiedeva, dopo averli formalmente rifiutati nell’atto stesso che venivano votati. Il Giardina pubblicò or non è molto i documenti relativi alla quistione, che finì con la scarcerazione degli arrestati e con danno morale del Vicerè. 
E quell’altro avvenuto fra il Vicerè duca di Albadelista e il marchese delle Favare, il duca di S. Giovanni e il barone di Siculiana, per il quale il marchese fu confinato ad Agosta, e vi morì in un accesso di collera. E non si dice il conflitto tra il Vicerè Infantado e l’arcivescovo De Leòn Càrdena che aveva riferito alla Corte omnia maledicta sul conto del Vicerè;  e quello contro il Sant’Offizio, dove egli mandò una compagnia di soldati spagnoli, per castigare un nunzio che aveva opposto resistenza a un ufficiale della Gran Corte. 

Luigi Natoli: Palermo al tempo degli Spagnoli 1500-1700. Opera inedita, costruita e fedelmente copiata dal manoscritto dell’autore privo di data. È lo studio critico e documentato di due secoli di storia della città di Palermo mirabilmente analizzata da Luigi Natoli con una visione del tutto contemporanea senza trascurar nulla, compresi i particolari, anche i più frivoli.
Argomenti trattati:
La città – Il governo – L’amministrazione – Il popolo – Il Sant’Offizio – Il clero e le confraternite – La giurisdizione e l’arbitrio – Le maestranze – Le rivolte – Le armi e gli armati – Le scuole e i maestri – La stampa – Gli usi e costumi delle famiglie – La vita fastosa – La pietà cittadina – Teatri e feste – I divertimenti cavallereschi e le giostre spettacolose – Banditi, stradari e duelli.
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 283 – Prezzo di copertina € 20,00
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