"I nostri romanzi sono una lettura eletta ed altamente appassionante, essi sono opera del grande WILLIAM GALT"
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venerdì 30 ottobre 2015
Luigi Natoli nel romanzo Gli Schiavi: la festa della "catagogia" della dea Venere.
Il culto di Afrodite Ericina, o Venere,
crebbe con gli anni, e il suo tempio, mèta di pellegrinaggi, era il più ricco
del mondo e rivaleggiava con quello di Pafo. Forse a questo valeva molto la
presenza delle jerodule, che avevano in custodia il tempio. Le jerodule, tutte
giovani e belle, erano ad un tempo sacerdotesse ed esercitavano la sacra
prostituzione; il rito era antico, e nessuno sapeva quando fosse cominciato.
Non uscivano mai fuor dalle mura che circondavano il tempio, se non quando erano
vecchie; avevano case, e vivevano di comune accordo. Diciassette città per
ordine dei Romani provvedevano il tempio di quanto occorreva, e duecento
soldati vigilavano alla sua sicurezza.
S’aspettava il ritorno delle colombe
sacre ad Afrodite. Ogni anno miriadi di colombe fra i canti delle jerodule
prendevano il volo per la Libia, e dopo nove giorni tornavano. Erano precedute da
una colomba rossa, nella quale si intendeva impersonata la Dea. Il ritorno era
salutato da canti gioiosi e da riti.
Lungo la strada che dalla pianura saliva
per l’erta, una folla d’uomini, di donne, di ragazzi, si recava ad Erice, che
sorgeva in disparte del tempio, e più in basso; e dalla acconciatura dei
capelli, e dal colore preferito delle vesti si distinguevano fra le altre
abitanti di Lilibeo, quelle di Segesta, quelle di Selinunte. Erano liete e
ciarlavano.
La città era rumoreggiante per la prossima festa. Era detta
“catagogia”, come “anagogia” era chiamata la partenza della Dea. Nella
“catagogia” si celebrava il ritorno alla sua sede, lasciata per breve tempo, ma
che pareva lungo, quasi la Dea volesse abbandonare Erice. In ogni casa erano
festoni di mirto e di rose, e ardeva dinanzi ad una piccola immagine di
Afrodite il fuoco, dentro un’ara portatile o un tripode. Chi poteva, spingeva
al tempio capre o pecore per il sacrificio; portava in canestri le colombe o i
frutti che la stagione dava; e per tutto era un affrettarsi di cittadini e di
schiavi, un andare e venire, un tramestìo, un cicaleccio da non si dire. E
attorno soldati, che raccomandavano l’ordine, senza poterlo ottenere.
Cleone aveva condotto con sé dieci
schiavi e cinque ancelle, e aveva ordinato al suo navarca che con un numero di
marinai libici si unisse con lui nel pellegrinaggio. I soldati, schierati lungo
la via del Tempio, mormoravano parole piccanti alle donne; e alle belle
raccomandavano ridendo di rinchiudersi tra le jerodule. E il cammino procedeva
tra una fioritura di motti grassi e scurrili e di risate.
Il tempio sorgeva su una sommità isolata,
e vi si giungeva mediante un ponte steso fra le due cime, che pareva si
contendessero il primato. Era in un recinto di mura, e la porta ne era guardata
da parecchi soldati. Dietro di questa si allargava una vasta spianata, ad una
estremità della quale sorgeva il tempio. Non era magnifico, e nella costruzione
dimostrava il carattere arcaico; scoperto, ma tutto di marmi preziosi e bronzi
dorati, oro ed argento a profusione. V’erano candelabri ricchissimi, doni offerti,
“ex voto”, stoffe rare, statue e oltre l’ara, sopra un altare, l’immagine della
Dea, non quale si vede effigiata dallo scalpello greco, ma di forme arcaiche,
rigide, con un volto che incuteva spavento per la sua immobilità ieratica,
coperta di vesti e di monili preziosi.
Le jerodule cantavano un inno, e i
sacerdoti sacrificavano. Non vittime umane, come quando Erice cadde sotto i
Cartaginesi, ma pecore, capre ed altri animali, coronati di rose.
Cleone ed Egle erano da poco arrivati
innanzi al tempio, quando s’intese un grido:
- Vengono! Vengono!
Un movimento febbrile commosse la folla:
tutti gli occhi mirarono con ansia un gruppo che apparve volando nell’estremo
orizzonte, e che s’ingrandiva via via che s’avvicinava. Erano le colombe.
Allora da mille e mille bocche si levò un canto di ringraziamento: le jerodule,
i sacerdoti, unirono il loro inno; tutto il monte parve animarsi, fumare e
cantare; e su quel canto svolazzarono le colombe, si posavano sulle cornici,
sulle scannellature, sul frontone del tempio; alcune seguendo la colomba rossa,
immagine della Dea, penetrarono nel sacrario spaventate dall’immenso clamore.
Nella foto: lapide a Venere Ericina.
Luigi Natoli nel romanzo Gli Schiavi: il tempio di Venere Ericina.
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Erice sorgeva in cima ad un monte isolato
sopra Drepano, e il tempio famoso era visibile da ogni parte, poiché spuntava
oltre la muraglia che lo circondava, eretta o rafforzata dai Romani dopo la
conquista della città. Già Afrodite aveva mutato il nome greco in quello latino
di Venere; ma i Sicilioti e i Siculi ellenizzati continuavano a chiamarla
Afrodite.
Il nome primitivo datole dai naturali
dell’isola (giacchè si tratta di una divinità sicana) è ignoto. Narra Virgilio,
nel V libro del poema, che Enea, istituendo le feste pel compleanno della morte
di Anchise, suo padre, avesse eretto sul monte un tempio alla dea Venere.
Essa fu madre di Erice, figlio di Bute;
il quale Erice fu ucciso da Ercole, e sepolto nel monte, che da lui prese il
nome. Invenzione più poetica che altro.
Il culto di Afrodite Ericina, o Venere,
crebbe con gli anni, e il suo tempio, mèta di pellegrinaggi, era il più ricco
del mondo e rivaleggiava con quello di Pafo. Forse a questo valeva molto la
presenza delle jerodule, che avevano in custodia il tempio. Le jerodule, tutte
giovani e belle, erano ad un tempo sacerdotesse ed esercitavano la sacra
prostituzione; il rito era antico, e nessuno sapeva quando fosse cominciato.
Non uscivano mai fuor dalle mura che circondavano il tempio, se non quando erano
vecchie; avevano case, e vivevano di comune accordo. Diciassette città per
ordine dei Romani provvedevano il tempio di quanto occorreva, e duecento
soldati vigilavano alla sua sicurezza.
Quando la bireme di Cleone ancorò nel
porto di Drepano, s’aspettava il ritorno delle colombe sacre ad Afrodite. Ogni
anno miriadi di colombe fra i canti delle jerodule prendevano il volo per la
Libia, e dopo nove giorni tornavano. Erano precedute da una colomba rossa,
nella quale si intendeva impersonata la Dea. Il ritorno era salutato da canti
gioiosi e da riti.
Lungo la strada che dalla pianura saliva
per l’erta, una folla d’uomini, di donne, di ragazzi, si recava ad Erice, che
sorgeva in disparte del tempio, e più in basso; e dalla acconciatura dei
capelli, e dal colore preferito delle vesti si distinguevano fra le altre
abitanti di Lilibeo, quelle di Segesta, quelle di Selinunte. Erano liete e
ciarlavano.
Era l’alba: il cielo, imbiancatosi
all’orizzonte, era sgombro di nuvole: solo qualche lieve sfilacciatura si
andava colorando in roseo. Via via che i pellegrini ascendevano il monte,
vedevano spiegarsi e allargarsi tutto intorno il bello, grandioso ed orrido
paesaggio. Da una parte l’occhio correva a Drepano, simile a una falce caduta
in una immensa pozza di calce, per via delle saline che brillavano di bianco; e
più lontano, tra il dubbio vapore che saliva dalla terra ridestatasi, si vedeva
Lilibeo e la distanza avvolgeva la pianura in una cerula e indistinta nube.
Oltre Drepano,
oltre Lilibeo, il mare azzurro, senza confine; e le isole, il
capo Egitallo, che
già si doravano al sopravvenire dell’aurora. Ma girando il monte, mutava la
scena. Altri monti e ancora monti, quali ripidi tagliati a picco sul mare, che
qui prendeva una tinta di argento; quali succedentisi l’un dopo l’altro entro
terra, come in uno scenario fantastico. S’aprivano seni fra le rocce; ecco le
acque putizianese; ecco biancheggiare, tra il sì e il no dei capi, Cetaria
; e più lontana ancora la punta dei monti segestani. Dentro terra, boschi e
monti or coperti di verde, ora brulli. E l’una e l’altra visione si alternavano
sotto lo sguardo ammiratore dei pellegrini, che il sole, sorgente dalle onde,
rivestiva d’oro.
Nella foto: il tempio di Venere Ericina, a Erice.
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Nella foto: il tempio di Venere Ericina, a Erice.
Luigi Natoli nel romanzo Gli Schiavi: il tempio d'Iblea.
Il tempio d’Iblea, situato nel punto più
alto della piccola città, aveva intorno uno spazio più che sufficiente per
contenere le folle, che accorrevano anche dai paesi più lontani. Il tempio era
piccolo, con un portico esastilo, senza colonne intorno: e doveva quindi la sua
fama più al potere attribuito alla dea, che alla modesta bellezza
dell’edificio. Era stato il più frequentato dai Siculi e ad essi il più caro; e
così era passato ai Greci. Ai tempi di Cleone (verso il 620 di Roma), la sua
fama era decaduta alquanto, ma gli indovini vi godevano ancora credito. Non
erano più numerosi come un tempo, che si contavano a centinaia, tutti a
servizio del tempio; ma dei pochi che tuttavia esercitavano il servizio religioso,
alcuni erano creduti infallibili.
Naturalmente non si consultavano senza
doni, più o meno pingui, che andavano ad arricchire il tempio. La immagine di
Iblea, vestita alla greca, col bastone in una mano e una piccola anfora
nell’altra, era sovraccarica di gioielli, che ornavano anche l’effigie del cane
che le saltava addosso. Ma anche i sacerdoti indovini avevano la loro parte.
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giovedì 29 ottobre 2015
Luigi Natoli nel romanzo Ferrazzano: il giuoco della smorfia
Il giuoco! L’anno innanzi il vicerè don Marcantonio Colonna principe
d’Aliano, aveva pubblicato un bando coi soliti modi, e suon di trombe e di tamburi,
col quale proibiva i giuochi di “invito e parata”, fra i quali elencava quelli
che erano in uso tra le classi elevate e le infime: “Bassetta, biribisso,
primera di qualsivoglia sorte, goffo, stopo con invito, trenta e quaranta,
cartetta, banco fallito, regia usanza, o sia truppa, faraone, paris e pinta,
passa dieci, sette e otto, scassaquindici, laccio e cavigliola, cacocciolille,
o siano tabacchiere, o siano scorze di noce” e altri popolari; ma era stato
tempo perso. Il bando proibiva assolutamente a qualsiasi persona, senza
differenza di grado, condizione, dignità, nazionalità, privilegio, di tenere
“né direttamente né indirettamente, ridotti di giuochi pubblici o sia
baratteria di carte, dadi, palle e biribisso”. Proibiva che nessuno doveva
giocare e “intervenire
anche per vedere giocare”, fosse
in luogo pubblico o privato, “palagi, case, giardini... ecc.”
Li proibiva, e minacciava gravi pene: pei nobili, se uomini cinque
anni di relegazione, se donne cinque anni d’esilio; senza contare le multe in
soprappiù, e le pene che colpivano i creditori di giuoco e quelli che avevano
giocato in parola, e i conduttori di case da giuoco, i quali dovevano pagare al
fisco mille ducati, e perdere tavolini, sedie, “e tutti gli strumenti dei giuochi
proibiti”, che dovevano essere bruciati innanzi le case in cui si fosse
giocato… Ma non ci fu nessun condannato, nessuna casa vide bruciata la più piccola
cosa; e la prammatica del vicerè Marcantonio Colonna raggiunse tutte le altre
dei suoi predecessori sul gioco nel gran mare delle parole inutili.
Perciò si giocava a primera, a trenta e quaranta e alla bassetta in
barba alle disposizioni.
Dunque don Diego e il baronello Spinola, due arrabbiati giocatori, giocavano
audacemente forti somme. Il baronello puntava; che questo aveva voluto, dacchè
aveva la mano buona; del resto erano in vena di vincere, e dopo un’ora il
mucchietto ch’era dinanzi a loro, diventò
un mucchione. Ridendo si alzarono dal giuoco, e passarono nella sala di
conversazione. C’erano gli oziosi e in quel momento parlavano di un annunzio,
che si leggeva nella gazzetta “Il Nuovo Postiglione”. Era questa una raccolta
di notizie da Parigi, da Madrid, da Vienna, ecc. frammischiate con avvisi di cose cittadine.
Il numero, di cui si parlava, conteneva l’annunzio di un libro pubblicato in
quei giorni. Non è a credere che si trattasse di una edizione di Dante o di
Petrarca o d’un altro classico, ma semplicemente “la Smorfia” o sia “Il vero
mezzo per vincere all’estrazione dei lotti, o sia, una nuova lista generale contenente quasi tutte le
voci delle cose popolaresche e appartenenti alle Visioni e Sogni, con loro
numero, esposto per ordine alfabetico. Opera di Fortunato Indovino, da esso
estratta da Vecchi Libretti dell’Anonimo Cabalista, e di Albumazzar da
Carpinteri. Accresciuta di 400 voci, ed ora in questa terza edizione se ne
aggiunge 582 oltre delle 90 figure esprimenti le arti, il giuoco del Barone...
V’è annesso il giuoco romano, e i numeri delle contrade. Tre nuove Cabale
d’ignoto autore, le tavole astronumeralgebrate, quali saranno per la cabala di
Rutilio Benincasa...”. E chi ne ha più ne metta.
Luigi Natoli nel romanzo Ferrazzano, dove si recita la commedia "l'Amore beffato", con Ferrazzano nella parte di Florindo e Floristella nella parte di Rosaura.
La musica terminò di sonare, lo squillo di un campanello impose il
silenzio, una specie d’attore si affacciò da un lato della scena e annunziò il
titolo dello spettacolo: era “L’Amore beffato”. Un mormorio ridevole si propagò
per la sala, perché il pubblico capì che s’alludeva a una avventura capitata in
quei tempi a un signore, e che aveva fatto le spese della città. Si tirò il
velario; cominciava lo spettacolo.
La scena rappresentava una bella stanza, con la porta comune in
fondo, un armadio a destra, una specie di consolle a sinistra; innanzi, presso
l’armadio, un tavolino. Una giovane donna era seduta accanto il tavolino, era
l’attrice Floristella che sosteneva la parte di donna Rosaura ricca vedovella.
Ella in quel momento si lamentava col “destino crudele”, che la esponeva a
subire le ridicole pretese di Geronte, vecchio e gottoso, che per disposizione
del morto marito doveva impalmare la sua vedova, se era destinata a passare a
seconde nozze. Dopo un soliloquio lacrimoso, pieno di frasi pescate nel
frasario sentimentale degli arcadi, viene Florindo, che era Francesco Ferrazzano
il cui apparire sulla scena fu accolto da un mormorìo piacevole. S’aspettavano
fin dalle prime battute le consuete arguzie, ma stavolta Florindo era serio, il
che produsse una certa delusione. Egli diceva:
- Bene mio, che avete? Vi ho forse offesa?
- Ahimè! Se fossi offesa da voi, ne ringrazierei il cielo, perché
potrei dissipare appunto quello che mi ferirebbe; ma voi non c’entrate, anzi,
se è vero che mi amate, ne siete voi stesso offeso; e non da me.
- Dite dunque, perché siete cotanto afflitta? e perché io ne rimango offeso?
Allora Rosaura narra del vincolo impostole dal morto, e ricordatole
dal vecchio Geronte, il quale sarebbe venuto più tardi per ricevere da lei il
consenso.
- Ah cuor mio, come farò?
- E per questo voi siete così prostrata? Spianate la fronte, e
sollevate lo spirito; non passerà la sera che il signor Geronte ritirerà
l’impegno assuntosi.
- Come? Voi mi aprire il cuore alla speranza?
- Più che la speranza, vi dò la certezza.
In questo frattempo si sente rumore; è Geronte che viene. Florindo
dice in fretta:
- Su presto, una zimarra e un paio di occhiali e se l’avete, un
berretto dottorale. La buon’anima di vostro marito li aveva.
- Ah! in quell’armadio!
Aprono e in un batter d’occhio Florindo si trasforma in un dottore,
e dice a Rosaura:
- Sdraiatevi, e fingetevi ammalata di nervi, e secondatemi, senza
però tradirvi.
Hanno appena il tempo ella di buttarsi in una seggiola a bracciuoli,
egli in piedi innanzi a lei, tenendole il polso, e sussurrandole a voce bassa: –
Svenite, – che entra Geronte zoppicando.
Alla vista di Rosaura svenuta
grida:
- Che è successo?
Ma Florindo si pose una mano sulla bocca:
- Zitto, per amor del cielo! Non vedete che ha gli accessi
furibondi?
A queste parole Rosaura mandò un grido, e si contorce tutta con
grande spavento del vecchio Geronte; e Florindo mentre trattiene i polsi della
finta ammalata, gli spiega la natura del male che affligge, usando parole
scientifiche, che l’altro non capisce.
- La signora è afflitta da una malattia che in scienza si chiama “anafragisma”, la
quale consiste nell’ingrossamento del nervo maiuscolo e minuscolo che si
appella “callustron”, e serve a distinguere ciò che non c’è. Laonde avviene che
le “sistole” e le “diastole” invece di andare unite, si dividono in particelle;
che si collocano nel vuoto e formano quella zona che si dice la zona del “cataplus”.
Onde avviene che il “difaros”, ossia il “fenuscolo” diffuso per tutto il corpo,
diviene eccitabilissimo e produce le convulsioni… Ma che fate voi? trattenete
questo braccio!... Dunque, produce le convulsioni e genera la pazzia.
A queste parole Geronte lascia il braccio spaventato, ma Florindo lo
rimprovera:
- Ma trattenete il braccio!
- Ma se è pazza?
- Non lo è ancora. Voi siete il nonno di questa signora?
- Oh! che dite mai! nonno! sono il fidanzato…
Al sentir questo l’ammalata mandò altissime grida, e levatasi
repentinamente si gitta sopra Geronte con le unghia pronte a graffiarlo.
Il pover’uomo si tirò indietro spaventato, e Florindo freddamente
commenta:
- Non vi date pensiero, signor fidanzato, questi sono i primi
accenni della incipiente pazzia.
- Incipiente dite?
- Che cosa è la pazzia? “Idest insania vel dementia vel amentiaetc.” È una perturbazione
della mente, la quale si manifesta con atti disordinati; e di solito graffiando
e mordendo chi gli sta vicino. Da dove nasce ciò? dal Versiero “quod absit et quoqunque californius
exspettoratus” come dice il dotto Almagesto; e in certi casi è necessario
raccomandarsi ad un padre di san Basilio o ad un mago o stregone che cacci il
Versiero.
Rosaura intanto si dibatte, e minaccia di mordere Geronte, che va
indietreggiando, e quistiona Florindo; il quale dopo esserne pregato gli
promette di spedirgli uno stregone. E poiché Rosaura accenna a calmarsi, fa per
andarsene; ma Geronte salta su e grida che non vuol rimanere solo con Rosaura, e
fugge di qua e di là. Florindo ne approfitta e si nasconde rapidamente
nell’armadio. Il povero Geronte spaventato della sparizione di Florindo e di
trovarsi solo con Rosaura grida; ma in questa l’ammalata cade priva di sensi.
Dall’armadio Florindo con voce sepolcrale grida:
- Lascia in pace cotesta donna che mi appartiene!
A queste parole lo spavento di Geronte diventa terrore, la voce
continua che non gli dà tregua, se non quando Geronte avrà scritto che rinuncia
alle nozze; la qual cosa egli fa, contento di scapparsene. Allora Florindo esce
dall’armadio; Rosaura rinviene subito, e tutti e due ridono a crepapelle
Gli applausi fioccarono, e Ferrazzano annunziò che non ai comici
dovevano essere rivolti, ma all’autrice della farsa che era l’eccellenza della
signora marchesa di Geraci. E qui nuovi e più calorosi evviva e congratulazioni
alla nobile dama.
Nota: l'editore precisa che questa commedia, così come tutte le altre recitate nel libro da Ferrazzano, nascono dalla penna dello scrittore Luigi Natoli.
Era questo detto dei Travaglini o più modernamente dal nome del
proprietario, di S. Lucia; dove recitavano le compagnie dei comici; e che poi
rifatto, abbellito e prevalso il secondo nome, si adattò a teatro d’opera,
rivaleggiando con quello più grande dei musici detto di S. Cecilia; finchè
ingrandito prese il nome di Carolino; e fu il solo e glorioso teatro d’opera di Palermo, anche
quando, mutato il regime, fu intitolato al nome imperituro di Bellini. Allora,
nel 1775, era un piccolo teatro che di fuori non annunziava punto che
nascondesse una sala da spettacoli. Una tettoia difendeva la porta sulla quale
una tabella di legno portava dipinto lo scritto: “Teatro di Travaglini”; un
corridoio senza luce, umido, con le pareti grommose, conduceva all’ingresso del
teatro, in fondo a un breve spazio. Una sala capace di trecento persone e tre
file di palchi; non vi erano poltrone, che allora non si usavano, ma sedie
numerate; una grande lumiera pendeva dal soffitto. Di giorno bisognava
abituarsi al buio per potersi movere e non inciampare in qualche sedia, ma di
sera si illuminava e si vedeva bene la fioritura delle belle vesti e la
bianchezza delle carni sull’addobbatura rosso cupo dei palchetti.
L’illuminazione era a cera nella lumiera e nei trionfi dei palchetti, ad olio
sul palcoscenico. Il quale era più tosto angusto; aveva in giro gli stanzini
degli attori, piccoli e malmessi, alcuni, invece di porta, erano difesi da una tendina;
gli uomini stavano da una parte in tre stanzini comuni, le donne in due, pochi stanzini
erano privilegiati. L’attrezzatura si componeva di tre o quattro scene con le
rispettive quinte; le scene erano arrotolate in alto e trattenute da corde che
penzolavano da un lato.
In quel tempo vi agiva una compagnia condotta da un siciliano, che
godeva grande opinione di buon attore, e recitava nelle parti di padre nobile:
si chiamava Domenico Minniti, era nato per così dire in teatro, perché era
figlio di comici. I suoi attori erano siciliani, ma il “Tiranno” e la moglie
erano napoletani, Antonio Zardo e Giuliana Buzelle, che in arte recitava da Beatrice.
Era quasi tutta una famiglia, chè fra loro erano imparentati: padri, madri e figli recitavano
o prendevano parte della compagnia come attrezzisti o trovarobe. Ma Floristella
no; era una trovatella o per essere più esatti, una figlia dell’arte trovata in
un angolo della porta di casa di Ferrazzano una sera al ritorno dal teatro.
mercoledì 28 ottobre 2015
Luigi Natoli nel romanzo Fioravante e Rizzeri: don Calcedonio vende il "pupo" Carlo Magno.
Il giorno dopo don
Calcedonio uscì di buonora, e si recò al teatrino. Era commosso come se fosse
costretto a strapparsi una costola o meglio il cuore. Guardò tutti i paladini
messi in fila, che lo guardavano alla loro volta con gli occhi spalancati; e
pareva irresoluto se scegliere l’uno o l’altro. Ne giudicava l’armatura, ne
tentava le mosse, ne verificava le vesti. Chi era più bello? Orlando? Rinaldo?
Carlo Magno? Fioravante no; quello gli serviva. Chi scegliere? Avevano tutti
belle armature di nichel con ricami dorati, e sfolgoravano. Egli ne prese
quattro, e li distese sul tavolato, poi su quattro pezzi di carta scrisse quattro
numeri, li attorcigliò, li chiuse nel cappello, li scosse e li buttò in terra.
Raccattò il più lontano; segnava il numero uno; corrispondeva a Carlo Magno.
Trasse un sospiro dal petto: era proprio quello che desiderava. Avvolse il
paladino in giornali, se lo cacciò sotto il soprabito e uscì.
Andò al palazzo del duca
di Terrabruciata, una duchea di recente formazione, il cui proprietario ricco a
milioni aveva fama di essere un raccoglitore di scartoffie, che prendeva per
codici antichi, di marmi tolti a vecchie fontane, che prendeva per greci o
romani, di lame arrugginite che egli credeva scavate nelle terre sacre
dell’antichità. Ma in compenso aveva una buona collezione di bardature, di
stoffe, di strumenti, di cose appartenenti al folclore. Gli mancava un paladino
per avere una collezione completa o quasi.
Don Calcedonio si
presentò al signor duca, e scioltosi il pupo di sotto il soprabito, mostrandolo
in tutto il suo splendore, gli disse:
- Le piace?
- Ehm! non c’è male.
Quanto?
- Non dico, ma la sola
armatura m’è costata circa mille lire.
- Troppo caro!
- Io non ho fatto
prezzo; vossignoria è buon giudice, e io vengo a offrire il mio paladino perché
so che va in cerca di cose caratteristiche di regione…
- Siete contento di
seicento lire?
- Ho detto che faccia
vossignoria.
Don Calcedonio uscì dal
palazzo con seicento lire e con gli occhi umidi di lagrime.www.ibuonicuginieditori.it
Luigi Natoli nel romanzo Fioravante e Rizzeri: don Calcedonio organizza l'opera dei pupi in casa del duca di Terrabruciata
Era un bell’affare quello ideato dal signor duca di
Terrabruciata! Non s’imbarazzava don Calcedonio della scelta, potendo egli al
modo stesso dare una rappresentazione tratta da Buovo d’Antona come da Orlando
o da Bradamante e Ruggero; né si preoccupava di avere chi lo coadiuvasse; né di
dover portare qualche altro paladino; ma, piuttosto della lingua che avrebbe
dovuto usare. Egli adoperava il linguaggio fabbricato da lui, tra italiano e
dialettale, spesso
dialetto con desinenze italiane o lingua con desinenze del dialetto; il
che formava un cibreo saporitissimo, al quale davano colore le frasi più
pittoresche e più volgari del vernacolo anzi del gergo, messe in bocca ai
paladini. Ma poteva adoperare lo stesso linguaggio nella sala del duca? Ecco il
busillis!
Andò intanto ad avvertire Cosimo, il suo aiutante, che sapeva imitare le voci di donne; e non potendo portare su l'organino in casa d'altri, andò a trovare un vecchio suonatore di violino, perché al modo antico, nascosto nel teatro, accompagnasse col solito mi, do, re, i combattenti. Poi scelse fra i vari cartelloni dipinti quello che diceva: "Orlando combatte con Ferraù di Spagna e lo abbatte".
La sorpresa delle signore e delle signorine vedendo il
cartellone, e le risate che accompagnarono le papere infioranti il linguaggio
di don Calcedonio, lo spasso che quei combattimenti suscitarono non si dicono; solo diremo che
alla fine (lo spettacolo non durò più di mezz’ora) don Calcedonio ricevette dal
mastro di casa una busta contenente cinque biglietti da cento lire. Fu un altro
spettacolo. Si aspettava che il duca gli regalasse duecento lire: ma
cinquecento? Si profuse in ringraziamenti; e per non essere da meno del signor
duca, ne regalò alla sua volta, trenta al suonatore e settanta al suo aiutante;
il resto lo intascò lui, ma cominciò a pensare a quello che poteva fare con quelle
quattrocento lire piovutegli dal cielo.
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