giovedì 29 febbraio 2024

Luigi Natoli: Ferrazzano fa lo spettacolo nel palazzo della marchesa di Geraci. Tratto da: Ferrazzano. Romanzo storico siciliano

C’era una grande conversazione in casa della marchesa di Geraci. Il palazzo sorgeva nel Cassaro, dove sorge ancora, sebbene non avesse ancora tutte le sue parti; e non mostrava nella triplice porta e nell’atrio la imponenza della sua mole e l’orgoglio della famiglia. Si capiva benissimo che non si tralasciava l’occasione per frequentare la nobile casa, e i Geraci sfoggiavano fin dallo scalone la loro magnificenza. Fino al Quattrocento i nobili erano solamente conti; il primo nominato marchese fu il magnifico Giovanni Ventimiglia, che da conte di Geraci diventò marchese, e per un secolo si disse in Sicilia semplicemente “il marchese” senza altro per indicare i Ventimiglia. Questo fatto aveva indotto a ritenere la loro nobiltà come la più antica e genuina; e sebbene il feudo fosse elevato a principato, pure tenevano a quel primo titolo.
Le vaste sale erano affollate di dame di tutte le età e di tutte le bellezze. Non dico che vi era anche qualche bruttezza; la quale per altro serviva inconsapevolmente di contrapposto per far meglio risaltare la beltà delle altre; e qualche scheletrica o per converso sferoidale figura, che facevano apprezzare meglio le gentili e giovanili silfidi che popolavano le sale. E la gran maggioranza era di maritate; gli usi del mondo allora non consentivano alle fanciulle di intervenire alle conversazioni e alle feste da ballo. Appena se ne vedeva qualcuna, ma di solito aveva oltrepassato i trenta anni, che in una città e in una classe abituata a vederle spose a sedici ed anche a quattordici anni, significava avere quasi l’età sinodale. Dunque giovani mogli, sul cui volto si leggeva apertamente il desiderio di piacere. E ne avevano il bisogno; maritate dai parenti, senza conoscere il futuro marito, senza amarlo, spesso d’età quattro volte maggiore di quella della sposa, sentivano in cuore una aspirazione a qualche sentimento più dolce, che si tramutava in desiderio, e da questo in voglia. Non diciamo poi delle vedove ancor giovani o per lo meno ancora piacenti, e della moda dei cavalieri serventi.
Si capisce quale poteva essere la conversazione tra le dame e i cavalieri serventi e non serventi, e quale era lo sdolcinato linguaggio in uso fra loro.
La marchesa di Geraci aveva oltrepassato la quarantina ed era bruttina, ma spiritosa, e doveva a questa qualità la corte che le facevano non certo i giovani, che sfarfallavano dove il miele era più fresco e più dolce, ma i più maturi. Ella riceveva con molto garbo; aveva una frase gentile per chiunque le era presentato, sorridente e incoraggiante. Accanto a lei stava la giovane duchessa di Archi, come una tortorella abbandonata, dacchè il marito, un rompicollo, aveva stimato meglio seguire in continente la prima donna del teatro di S. Cecilia, senza dar di sé alcuna notizia. Era bellina, e il sorriso dolcemente malinconico era una leva potente per sollevare i pesi più saldi. La marchesa di Geraci se la teneva vicina appunto per la sua forzata vedovanza, che la rendeva interessante agli occhi di tutti, specialmente degli uomini, che però non osavano farle la corte sotto la vigilanza della marchesa. Appunto per questo, ella aveva per suo servente il cavaliere d’Archirafi, che aveva cinquantacinque anni: le oneste maldicenze erano messe a tacere.
Un’altra stella di prim’ordine era la duchessa di Garsiliato, che splendeva in mezzo ad una corte di gentiluomini. Era veramente bella, alta, slanciata, il volto ovale, nel quale sfolgoravano gli occhi nerissimi, il naso era un poema, diritto con le narici piccole leggermente rosee; la bocca di corallo. Non si poteva dir quanto fosse da attribuire ai segreti della sua toeletta, ma le fattezze incomparabilmente regolari non avevano bisogno dell’aiuto dei cosmetici. Parlava con grazia, un po’ lenta, con lievi gesti del capo, e con un sorriso affascinante. Aveva trentadue anni.
Ma la marchesa di Aidone, una bella donna anche lei, pareva la fragilità in persona; si sarebbe detto che si spezzava in due; ogni più piccolo incidente le cagionava una grande commozione che si manifestava in interiezioni, in “ohimè”, in “oh Dio”, in mani al cuore e simili gesti di una straordinaria sensibilità. Era piccolina e piuttosto magra.
La contessa di San Bartolomeo per converso rideva sempre per qualunque causa, anche se triste; era una cosa superiore alla sua volontà; rideva di nulla, e spesso si domandava perché ridesse. Grassoccia, né alta, né bassa, bianca e rosea, pareva il ritratto della buona salute, e infondeva agli altri la giocondità. Aveva anche lei ventisette anni come la marchesa di Aidone.
La principessa d’Altofonte pareva una regina orgogliosa; era bella, ma le sue fattezze riflettevano l’orgoglio e acquistavano una certa durezza, che respingeva gli animi. Giunonica, s’avvaleva del suo corpo per imporsi, e dovunque passava, accoglieva con un sorriso di protezione gli inchini di chi, forse, valeva più di lei. Non aveva che una adorazione: la plastica e armoniosa bellezza delle sue forme; e quando usciva dal bagno, si guardava tutta nuda nel grande specchio, compiacendosi con se stessa, e domandandosi se v’era alcuna donna che si rassomigliasse a lei. Se fosse vissuta ai tempi delle favole, avrebbe creduto che il sommo Giove l’avesse generata.
Ma a che parlare di tutte quante le dame che rendevano i saloni della marchesa di Geraci simili a olezzanti superbi mazzi di fiori.
V’era da per tutto un cicaleccio frammisto di risatine, di esclamazioni, di domande; un brusìo di mille voci che parlavano a voce moderata ma che tutte insieme facevano un tumulto giocondo. Ma a un tratto corse una voce e si fece un gran silenzio; la marchesa aveva preparato una sorpresa che nessuno si aspettava: la recita d’una farsetta originale, non lunga, con pochissimi personaggi; la marchesa taceva chi era l’autore, ma la incorreggibile imprudenza della baronessa di Santo Stefano aveva rivelato sotto voce che era la stessa marchesa, che si compiaceva di serbare l’anonimo. La malignità sussurrava che la baronessa ne aveva ricevuto l’imbeccata: ma ognuno fingeva di ignorarne l’autore.
V’era nell’ultima sala un palcoscenico velato, e là passarono gli invitati, e presero posto. Durante il pezzo suonato da una orchestra il chiacchierio si fece più vivace. Certo l’idea della marchesa, una commedia in un atto o una farsa, recitata in casa, era una cosa graziosa, specialmente se breve, e se l’autore sapeva trovare un soggetto divertente. Chi erano gli attori? Anche questo rimaneva segreto; non v’era che un attore in città che sapeva divertire il pubblico: Ferrazzano. Ma la baronessa di Santo Stefano non lo sapeva neppur lei, aveva saputo la composizione dell’opera, ma sulla scelta degli attori non sapeva nulla.
La musica terminò di sonare, lo squillo di un campanello impose il silenzio, una specie d’attore si affacciò da un lato della scena e annunziò il titolo dello spettacolo: era “L’Amor beffato”. Un mormorio ridevole si propagò per la sala, perché il pubblico capì che s’alludeva a una avventura capitata in quei tempi a un signore, e che aveva fatto le spese della città. Si tirò il velario; cominciava lo spettacolo...


Luigi Natoli: Ferrazzano. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine Settecento in cui protagonista è Ferrazzano, comico del '700, maschera del teatro siciliano.
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato a puntate sul Giornale di Sicilia dal 30 ottobre 1932.
Copertina di Niccolò Pizzorno. Pagine 338. Prezzo di copertina € 19,00.
Il volume è disponibile:
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