L’ometto era piccolo,
magro, coi capelli neri, che gli scappavano a lunghe ciocche sul collo da sotto
la cuffia. Il suo volto lungo con un muso di faina, raso, aveva un’età
indefinibile. Gli si potevano dare venti o quarant’anni. Dal naso al mento, pei
solchi che si affondavano sulle guance, per la piega amara e beffarda delle
labbra aveva quarant’anni; ma gli occhi grandi, vivaci, che ridevano anche
quando la bocca pareva più amara, eran quelli di un giovane a venti anni.
La sua cuffia di
velluto nero, qua e là spelato, teneva buona compagnia alla zimarra, che aveva
ai gomiti e sul petto una lucidità, indizio di una età venerabile e di un lungo
servizio; e alle sfilacciature e a qualche strappo mal rammendato rivelava le condizioni
economiche dell’ometto, non molto prospere, in vero. Ma eran cose alle quali
egli non badava: pareva anzi che quella povertà fosse indispensabile a
quell’aria di sdegnosa fierezza che gli splendeva sulla fronte ampia e
impavida. Si chiamava Mastro Bertuchello. Nessuno, neppur lui sapeva perché
avesse questo nome. Era forse un soprannome? Un’ ingiuria? Da bambino lo
chiamavano Bertuchello; e continuavano a chiamarlo così, ed egli stesso si
sottoscriveva “Mastro Bertuchello” sebbene la sua mamma gli avesse detto che
egli era stato battezzato dalla chiesa madre di Geraci, col nome di Giovanni e
che a suo padre, Maso Mangialavacca, “borgese” di Geraci, era stato tramandato
quel curioso nome da uno zio canonico del duomo di Cefalù.
Mastro Bertuchello era
veramente giovane; aveva ventitré anni ed era venuto in Palermo da pochi mesi,
dopo più d’un anno dalla catastrofe del conte suo signore. Egli era stato uno
dei familiari della casa del conte. Messer Francesco lo aveva tenuto a sue
spese allo studio di Bologna; e pensava forse di fargli ottenere qualche
ufficio nella Curia, o di farne un notaro, dacché Bertuchello aveva dichiarato
di non sentir nessuna vocazione per la chierica o pel saio. Ma la rovina del
conte, la confisca dei beni, le persecuzioni, le prigionìe, i supplizi con cui
furono perseguitati i congiunti, i seguaci, i familiari del nobile signore, lo
balestrarono da prima a Cefalù, e da Cefalù a Palermo. A Palermo c’era per
altro un lontano parente di sua madre, chierico di san Michele Arcangelo.
Bertuchello andò a trovarlo: e per suo mezzo, nel novembre del 1338 ottenne dal
Comune l’incarico di insegnar grammatica ai fanciulli, nella scuola di S.
Domenico.
E così mastro
Bertuchello, se non potè essere scriba nella Curia o notaro, diventò maestro di
scuola; e vi era già da un anno.
Per altro
quest’ufficio non gli spiacque. Stando allo studio di Bologna Bertuchello aveva
preso amore agli studi letterari. Oltre agli studi di diritto e di teologia, ai
quali era obbligato, ne faceva altri per suo conto, procurandosi libri, e
copiandoseli in bella scrittura. Nella baraonda degli studenti, che convenivano
in quell’Archiginnasio, da ogni parte d’Italia, ve n’erano che preferivano
leggere Virgilio e Ovidio, e che scrivevano rime volgari per le loro belle, e
satire latine contro i loro maestri. Tra le sbornie, i tumulti, le coltellate e
le lezioni di diritto, Bertuchello acquistava così una cultura più larga e più
umana; che diventava passione, di mano in mano che egli capitava qualche autore
latino, e che se lo ricopiava.
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