Benché fosse di
dicembre, c’era fuori un bel sole, che empiva di luce quella stanza nuda, con
le pareti bianche e il soffitto di legno a grossi travi grossolanamente
squadrati, del colore naturale un po’ annerito. La luce entrava da un’ampia
finestra, che dava sul chiostro pieno di sole.
Da un pezzo il Comune
di Palermo teneva nel chiostro di S. Domenico, a proprie spese, una pubblica
scuola; e vi stipendiava un maestro, magister puerorum, perché vi insegnasse
grammatica. Grammatica in quel tempo voleva dire la lingua latina. Era il primo
grado di insegnamento. Allora non si conosceva nelle scuole altra lingua
letteraria, fuor che quella. Il volgare, che era prima assurto a lingua d’arte
illustre nella corte dell’imperatore Federico, e nel quale Dante aveva già
scritto il suo poema, non cominciò a essere studiato privatamente che nel
secolo XVI; e non divenne insegnamento scolastico che nel secolo XVIII. Allora
non si usava che per comporre qualche poesia, o qualche cronaca o scrittura
ascetica per gli “idioti”, gli ignoranti cioè. La scienza usava come sua lingua
propria il latino; ma era un latino che aveva poco da vedere con quello
ciceroniano.
Da due anni circa il
Comune aveva scelto a insegnar grammatica un chierico; non “chierico” perché
appartenesse alla chiesa; ma perché aveva percorso tutti gli studi fino alla
teologia, e portava ancora la zimarra degli uomini di chiesa, come d’ordinario
i maestri, ancorchè laici.
Si chiamava Mastro Bertuchello.
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