venerdì 5 luglio 2019

Luigi Natoli: Squarcialupo. Quadro storico dell'opera a cura dello stesso autore.

Gli ultimi anni di re Ferdinando furono contristati dalla morte dell’unico maschio, Giovanni (1497), e poi della primogenita delle femmine, Isabella maritata al re di Portogallo, e del figlio di lei: poi della Regina (1504). Non gli rimaneva ora che la figlia Giovanna, sposa all’arciduca d’Austria Filippo il Bello, da cui era nato a Grand un figlio Carlo, il 24 febbraio 1500. Il Re fece riconoscere Giovanna erede degli Stati; e gli atti si intitolarono da lei e da Carlo. Ma alla morte prematura di Filippo, Giovanna, giudicata pazza, fu rinchiusa a Tordesillas, e Ferdinando riprese il potere fino alla sua morte, avvenuta il 23 gennaio del 1516. Carlo ereditava gli stati sotto la reggenza del cardinale Ximenes, dell’arcivescovo di Saragozza e del vicerè Ugo Moncada.
Questo vicerè d’altra famiglia dei Moncada di Sicilia, era venuto a reggere la Sicilia il 7 dicembre del 1509. Venturiero, valoroso capitano, superbo autocrate e nemico dei nobili. Nel 1511, non essendosi provveduto a pagare i soldati spagnoli che venivano da una infelice spedizione in Africa, questi, affamati, invasero le case dei cittadini di Palermo, che insorsero, e li massacrarono. Il tumulto fu sedato dall’intervento del conte di Golisano, Antonio Cardona, ben voluto dal popolo. Ma il Vicerè, che aveva provocato quel moto, infierì contro la popolazione, e fece prendere e impiccare i capi, fra cui un gentiluomo, Paolo Pollastra. Questo gli attirò odio, e altro più fiero ma ingiusto se ne attirò dalla nobiltà per la protezione accordata a Giovan Luca Barbieri. Questi aveva compilata un’opera di accertamento dei titoli, in grazia dei quali l’aristocrazia godeva feudi e benefizi, spesso non legittimi, e incitava per questo il Vicerè a spogliarne coloro, il possesso dei quali non risultava legittimo. La nobiltà colta occasione dalle scostumatezze, le illegalità, gli arbitrî, la rapacità del vicerè, che gli faceva metter mani nella roba altrui, e anche in quelle del fisco, reclamò contro di lui più per difendere il mal tolto, che per altro.
Non ostante i reclami, il Moncada, forte dell’amicizia di alcuni signori, era riuscito a farsi riconfermare per un secondo triennio; e sperava una terza ricompensa, quando gli giunse privatamente notizia della morte del Re. Costui la tenne occulta, non convocò, come doveva, il Parlamento, né depose l’incarico di reggere il governo, nelle mani del Gran Giustiziere, come era disposto. Ma la notizia della morte del Re veniva diffusa dal conte di Golisano, quel medesimo che aveva sedato il tumulto del 1511; il quale scelto come ambasciatore di Catania, sostenne in Parlamento che il Moncada era scaduto d’ufficio e i principali baroni, fra cui il conte di Cammarata, convennero con lui. Il Vicerè, disperando di riuscire, ricorse al Sacro Consiglio, nel quale aveva amici, e questo giudicò doversi applicare la prammatica di re Giovanni, che prescriveva che in caso di morte del sovrano il vicerè rimanesse in carica, fino alle disposizioni del nuovo re. Allora don Ugo sciolse il Parlamento, ma i baroni non si sciolsero: uscirono dalla città tutti insieme, e raccolti i procuratori dei comuni demaniali s’adunarono a Termini, e nel duomo acclamarono Carlo e Giovanna, e fecero redigere un atto notarile, il 5 marzo 1516.
Allora il Moncada si risolvette a far l’acclamazione dei nuovi sovrani; però mentre cavalcava per la città, avvenne un tumulto contro gli ebrei convertiti. La vista di don Ugo, mutò l’umore del popolo, che cominciò a gridare: fuori Moncada! Egli turbato si rinserrò nello Steri; e per ingraziarsi il popolo, sospese la riscossione di un gravoso donativo; obbligò Giovan Luca Barbieri a lasciar l’ufficio di Capitano Giustiziere, e preparò una frode. Infatti, essendo stato d’urgenza convocato il Consiglio Civico composto dai consoli delle maestranze, vi si diffondeva la voce dell’arrivo d’un messo reale. Il Pretore e i Giurati sospeso il Consiglio, accorsero per onorarlo, trascinandosi il popolo; ma il messo reale fu riconosciuto per un famiglio del Vicerè e le patenti regie, che confermavano il Moncada, furono per la prontezza di un popolano riconosciute false. Ne nacque più fiero tumulto: il popolo si armò, corse a piazza Marina ad assalire lo Steri con assi e artiglierie. Il Vicerè, travestito, ricoverò sulle galere del prossimo porto. Il conte di Adernò, Blasco Lanza e altri partigiani del Vicerè fuggirono; lo Steri fu saccheggiato. La folla risalì pel Cassaro, via principale, e giunse alla reggia, dove era allogato il Sant’Offizio, e tratto l’Inquisitore fra Cervera, lo menava a caval d’un asino alla Cala ad imbarcarsi.
Il Senato assumeva il potere.
Il conte di Golisano e gli altri baroni informati dal Senato, tornarono in Palermo e adunatisi coi giurati e coi cittadini, deliberavano di mandare Antonello Lo Campo ambasciatore a re Carlo nelle Fiandre, ad accusare il Moncada delle sue ribalderie, e a rilevare le rapine e le ingiustizie del Sant’Offizio.
Intanto si diffondeva per l’Isola il movimento contro i partigiani del Moncada, e anche contro i feudatari invisi. Il Moncada si era ricoverato in Messina, dove il 12 aprile gli proveniva la conferma regia per un altro triennio di governo: ma in una improvvisata adunanza parlamentare, erano stati eletti presidenti del regno il marchese di Geraci e il marchese di Licodia, e la loro nomina veniva ratificata dalla deliberazioni dei Consigli civici, non ostante don Ugo cercasse impedirle e suscitare disordini.
Secondo le richieste di Antonello Lo Campo, il re mandò a Palermo un certo Diego Langlar, per fare un’inchiesta che ebbe per effetto il richiamo di don Ugo e dei conti di Golisano e di Cammarata a Bruxelles. Dopo qualche giorno il Re annullò la conferma del triennio, diede al Moncada altro ufficio, e nominò Luogotenente Generale del regno il conte di Monteleone. Però trattenne a Bruxelles i due conti, di Golisano e di Cammarata quasi in ostaggio. Annullava gli atti dei due presidenti, rimoveva magistrati, ripristinava la riscossione del donativo, e concedeva generale amnistia, fuor che a venti.
Ettore Pignatelli, conte di Monteleone, calabrese, di nobile e antica schiatta, seguendo le istruzioni regie, rimetteva negli uffici gli antichi partigiani del Moncada. Questo fatto, l’esilio dei due presidenti a Napoli, e più di tutto l’assenza dei conti di Golisano e di Cammarata, dei quali si diceva fossero decapitati e imprigionati, tenevano Palermo agitata e sospetta. Di questo stato d’animo approfittò Giovan Luca Squarcialupo, giovane discendente da patrizia famiglia oriunda da Pisa, ma di scarsa fortuna. Costui vagheggiava nell’animo disegni di liberi reggimenti, come quelli di Pisa, e comunicatili ad altri giovani fidati e a popolani coraggiosi e pronti ai rischi, li adunò nel castello di Margana presso Vicari, dove si accordarono sul da fare. Dei nobili v’erano fra gli altri Baldassarre Settimo, Cristoforo Di Benedetto, Alfonso La Rosa, Pietro Spatafora. Si stabilì di assalire i giudici della Magna Curia e gli altri magistrati, strumenti già del Moncada e ora del Monteleone, il 23 luglio 1517, nel Duomo, durante il vespro di S. Cristina, patrona della Città.
Ma quel giorno la congiura fu rivelata al Luogotenente Generale, il quale turbato sospendeva la cavalcata festiva, e si chiudeva nello Steri con pochi soldati. Lo Squarcialupo e i suoi compagni appena udite le campane del Duomo, vi corsero e lo trovaron deserto: capirono di essere stati traditi, ma non desistettero. Ucciso Paolo Caggio, innocuo archiviario del Comune, corsero per la via Marmorea o Cassaro. Erano ventidue, ma poco dopo diventarono moltitudine, e gridando: muoiano gli assassini dei conti, investirono lo Steri. Il Pignatelli credette ammansirli con parole da una finestra, affermando che i conti erano vivi, ma non fu inteso. Era calata la notte, la folla era cresciuta, e suonavano le campane a stormo. Al chiarore delle torce lo Steri fu preso d’assalto; due giudici della Magna Curia furon precipitati dalle finestre: il conte di Monteleone, snidato, non ebbe torto un capello, ma disarmato, fu condotto e chiuso nella Reggia. La rivolta dilagò: ucciso Priamo Capozzo, giurista e poeta, cercato invano Blasco Lanza, ne fu bruciata la casa e vandalicamente distrutta la ricca biblioteca. La fuga salvò i partigiani più noti del Moncada. Il Sant’Offizio fu dato alle fiamme. Termini, Trapani, Catania, paesi minori insorsero; rinacquero antiche gare e fazioni e dappertutto uccisioni, incendi, rovine.
Lo Squarcialupo rifaceva il senato, e riprendeva il suo posto di giurato, il pretore Giovanni Ventimiglia mandava lettere a Catania e un’altra al Re, esponendo le ragioni dei fatti, e supplicandolo di rimandare i Conti. In fondo a tutto questo movimento c’era l’avversione allo straniero e l’aspirazione all’indipendenza.
Ma nell’ombra si tramava la controrivolta. Due fratelli Bologna, Nicolò e Francesco, la concepirono, s’intesero con Pompilio Imperatore, Pietro d’Afflitto, Alfonso Saladino e Girolamo Imbonetta, ed offersero al Luogotenente di ammazzare lo Squarcialupo e i compagni. Il Pignatelli ne gioì.
L’8 settembre convenivano nella chiesa dell’Annunziata a Porta S. Giorgio, lo Squarcialupo coi Bologna, coi seguiti, e vollero prima udir messa: ma mentre il sacerdote celebrava, a un segno del Ventimiglia, Nicolò Bologna si getta su Cristoforo Di Benedetto, e lo ammazza, Pietro d’Afflitto uccide Alfonso La Rosa, Pompilio Imperatore dopo un attimo di lotta abbatte Giovan Luca Squarcialupo. Allora Guglielmo Ventimiglia esce, e arringa la folla stupita: gli armati condotti dai congiurati escono gridando viva il re e muoiano i traditori: i partigiani di Giovan Luca pavidi si sbandano. Cominciano le uccisioni e durano fino a sera. Seguono bandi e leggi severe, si ricostituisce un nuovo senato, e si inviano lettere al Pignatelli, che era fuggito a Messina, per farlo ritornare.
La cospirazione di Giovan Luca Squarcialupo, nata da generosi sentimenti, si svolse con mezzi inadeguati e senza un fine determinato: egli ne fu biasimato, e i suoi uccisori lodati. Ma con questa dello Squarcialupo comincia la serie delle sommosse, delle cospirazioni, delle rivoluzioni contro la Spagna, segno di irrequietezza per la perduta indipendenza.
Il Luogotenente, a cose quiete, ritornato in Palermo, ordinò processi: i popolani furono impiccati; gli uccisori dei giudici furono alla loro volta precipitati dalle finestre dello Steri; i fratelli e lo zio di Squarcialupo decapitati, le loro case abbattute. Seguirono altri supplizi. Così egli annunziò al Re di aver salvata la Sicilia. Il Re lo nominò vicerè.
Ma non per questo la Sicilia ebbe pace e il Vicerè quiete…


Luigi Natoli: Squarcialupo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1500
Nella versione originale pubblicata per la prima ed unica volta a puntate, in appendice al Giornale di Sicilia, dal 02 febbraio 1924. Raccolto in unico volume ad opera de I Buoni Cugini editori. 
Copertina di Niccolò Pizzorno
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