venerdì 24 agosto 2018

Luigi Natoli: Fabrizio di Torralba alla Quinta Casa. Tratto da: I mille e un duelli del bel Torralba


Il nome le veniva dall’essere la quinta delle sei case religiose che i padri Gesuiti possedevano in Palermo. Sorgeva presso il Molo ed era adibita ordinariamente agli esercizi spirituali; e vi si andavano a chiudere per un dato periodo di giorni gli uomini che volevano purgarsi l’anima dei peccati, che ricommettevano poi uscendone. Ma cacciati i gesuiti nel 1776, la Casa fu in seguito trasformata in caserma per la cavalleria, e poi in casa di correzione, e munita di grosse inferriate alle finestre. Vasto e massiccio edificio, come ancora si vede, vi si chiudevano i borsaioli, maschi e femine, che si volevano correggere, “i figli dei ladri di cui si volevan fare dei buoni Siciliani, i cattivi soggetti, i bancarottieri, i rapitori di donne, che si lasciavano rapire e infine, per grazia speciale, si accordava ai padri scontenti di confidare i loro figli alla tenera vigilanza del padre Geronimo, cappuccino, e le loro figlie alla materna sollecitudine della signora donna Virginia”. Così si chiamavano i due corpulenti ed atletici personaggi direttori di questo istituto. Essi avevano una potestà illimitata sui loro prigionieri, salvo quella di vita e di morte. 
Per entrarvi non occorreva una sentenza di magistrato; bastava che un padre, che voleva “amorosamente” correggere un figlio di qualche suo amoretto, ottenesse un biglietto dalla presidenza della Gran Corte, che era allora il giureconsulto don Giovanbattista Paternò; col quale biglietto egli cominciava col far prendere e legare il proprio figlio dai birri, che lo conducevano alla Quinta Casa “dove lo si chiudeva sotto chiave, e dove l’autore dei suoi giorni non tardava a raggiungerlo. Lì questi si accordava col padre Geronimo, per far amministrar regolarmente al suo caro figlio venti, trenta o quaranta nerbate la settimana, sopra una parte del corpo che il pudore mi vieta di nominare, colpi dei quali la prima ragione ordinariamente era data sotto gli occhi paterni”.    
Si usciva dalla Quinta Casa a richiesta del padre: vi si poteva stare dieci giorni come un anno; e qualche disgraziato vi stette anche quattro anni, e vi impazzì. 

Si capisce quindi il terrore di Fabrizio, e la voglia di scongiurare il pericolo di una clausura aggravata dalle battiture e per un tempo indeterminato. Egli contava sull’appoggio della principessa Carlotta e del principe di Belmonte. Il conte di Torralba, insensibile alle preghiere dei figli e a quelle della moglie, era sensibilissimo a quelle dei grandi Signori; e i Ventimiglia erano della più antica nobiltà siciliana, e si vantavano dello stesso ceppo dei re normanni. I Torralba non potevano risalire a così antiche e nobili origini; ma il conte era così fanatico del suo albero genealogico, e così infatuato di nobiltà, che riteneva quasi un dovere religioso accogliere le preghiere o soddisfare i desideri degli altri nobili. Fabrizio dunque sperava di placare la collera paterna per mezzo dei suoi amici e protettori.

La stessa sera, sorpreso per la strada Fabrizio fu preso da una mano di birri, legato, gittato in una portantina e trasportato all’orrida casa di correzione…
Lasciato solo e chiuso nella celletta, Fabrizio cominciò a pensare. La lucerna di stagno a un becco spandeva una luce rossastra, che aiutava a fantasticare.
La notte gli parve più lunga del solito; vera notte invernale con raffiche di pioggia che battevano sui vetri della finestra, ululati di vento, improvvisi bagliori di lampi, e il mugghìo del mare agitato, che lo tenevano sveglio, e lo destavano quando si appisolava: ma finalmente apparve il giorno. Fabrizio potè meglio esaminare la sua cella: essa aveva una finestra, alla quale poteva affacciarsi benissimo, salendo sulla sedia. Ciò che egli fece subito.
La finestra era munita di grosse sbarre di ferro incrociate fra le quali il volto poteva spingersi un poco. Per prima cosa egli volle misurare l’altezza, come se ci fosse stata la possibilità di uscirne. Era molto alta. Giù si allungava la strada del Molo che costeggiava il porto, affollato di bastimenti grandi e piccoli e di barche. Vedeva più in là, di fronte a lui la lanterna del Molo, bianca sul piccolo fortilizio, sul quale si scorgevano bene i cannoni che difendevano l’entrata nel porto. Più in fondo, oltre lo specchio d’acqua si prolungava il Capo Zafferano, e dietro, fra le nebbie i monti più lontani del golfo di Termini. Non pioveva più, ma il cielo era nuvoloso, e il sole appariva come una macchia bianca, una specie di nebulosa fra il grigiore delle nubi...



Luigi Natoli: I mille e un duelli del bel Torralba. 
Pubblicato unicamente a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 1 febbraio 1926 e raccolto in unico volume ad opera della casa editrice I Buoni Cugini editori.
Pagine 460 - prezzo di copertina € 24,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 


Nessun commento:

Posta un commento