Il nome le veniva
dall’essere la quinta delle sei case religiose che i padri Gesuiti possedevano
in Palermo. Sorgeva presso il Molo ed era adibita ordinariamente agli esercizi
spirituali; e vi si andavano a chiudere per un dato periodo di giorni gli
uomini che volevano purgarsi l’anima dei peccati, che ricommettevano poi
uscendone. Ma cacciati i gesuiti nel 1776, la Casa fu in seguito trasformata in
caserma per la cavalleria, e poi in casa di correzione, e munita di grosse
inferriate alle finestre. Vasto e massiccio edificio, come ancora si vede, vi
si chiudevano i borsaioli, maschi e femine, che si volevano correggere, “i
figli dei ladri di cui si volevan fare dei buoni Siciliani, i cattivi soggetti,
i bancarottieri, i rapitori di donne, che si lasciavano rapire e infine, per
grazia speciale, si accordava ai padri scontenti di confidare i loro figli alla
tenera vigilanza del padre Geronimo, cappuccino, e le loro figlie alla materna
sollecitudine della signora donna Virginia”. Così si chiamavano i due
corpulenti ed atletici personaggi direttori di questo istituto. Essi avevano
una potestà illimitata sui loro prigionieri, salvo quella di vita e di morte.
Per entrarvi non occorreva
una sentenza di magistrato; bastava che un padre, che voleva “amorosamente”
correggere un figlio di qualche suo amoretto, ottenesse un biglietto dalla
presidenza della Gran Corte, che era allora il giureconsulto don Giovanbattista
Paternò; col quale biglietto egli cominciava col far prendere e legare il
proprio figlio dai birri, che lo conducevano alla Quinta Casa “dove lo si
chiudeva sotto chiave, e dove l’autore dei suoi giorni non tardava a raggiungerlo.
Lì questi si accordava col padre Geronimo, per far amministrar regolarmente al
suo caro figlio venti, trenta o quaranta nerbate la settimana, sopra una parte
del corpo che il pudore mi vieta di nominare, colpi dei quali la prima ragione
ordinariamente era data sotto gli occhi paterni”.
Si usciva dalla Quinta Casa a richiesta del padre: vi si poteva stare dieci giorni come un anno; e qualche disgraziato vi stette anche quattro anni, e vi impazzì.
Si usciva dalla Quinta Casa a richiesta del padre: vi si poteva stare dieci giorni come un anno; e qualche disgraziato vi stette anche quattro anni, e vi impazzì.
Si capisce quindi il
terrore di Fabrizio, e la voglia di scongiurare il pericolo di una clausura
aggravata dalle battiture e per un tempo indeterminato. Egli contava
sull’appoggio della principessa Carlotta e del principe di Belmonte. Il conte
di Torralba, insensibile alle preghiere dei figli e a quelle della moglie, era
sensibilissimo a quelle dei grandi Signori; e i Ventimiglia erano della più
antica nobiltà siciliana, e si vantavano dello stesso ceppo dei re normanni. I
Torralba non potevano risalire a così antiche e nobili origini; ma il conte era
così fanatico del suo albero genealogico, e così infatuato di nobiltà, che
riteneva quasi un dovere religioso accogliere le preghiere o soddisfare i
desideri degli altri nobili. Fabrizio dunque sperava di placare la collera
paterna per mezzo dei suoi amici e protettori.
La stessa sera, sorpreso
per la strada Fabrizio fu preso da una mano di birri, legato, gittato in una
portantina e trasportato all’orrida casa di correzione…
Lasciato solo e chiuso nella celletta, Fabrizio cominciò a pensare. La
lucerna di stagno a un becco spandeva una luce rossastra, che aiutava a
fantasticare.
La notte gli parve più
lunga del solito; vera notte invernale con raffiche di pioggia che battevano
sui vetri della finestra, ululati di vento, improvvisi bagliori di lampi, e il
mugghìo del mare agitato, che lo tenevano sveglio, e lo destavano quando si
appisolava: ma finalmente apparve il giorno. Fabrizio potè meglio esaminare la
sua cella: essa aveva una finestra, alla quale poteva affacciarsi benissimo,
salendo sulla sedia. Ciò che egli fece subito.
La finestra era munita di
grosse sbarre di ferro incrociate fra le quali il volto poteva spingersi un
poco. Per prima cosa egli volle misurare l’altezza, come se ci fosse stata la
possibilità di uscirne. Era molto alta. Giù si allungava la strada del Molo che
costeggiava il porto, affollato di bastimenti grandi e piccoli e di barche.
Vedeva più in là, di fronte a lui la lanterna del Molo, bianca sul piccolo
fortilizio, sul quale si scorgevano bene i cannoni che difendevano l’entrata
nel porto. Più in fondo, oltre lo specchio d’acqua si prolungava il Capo
Zafferano, e dietro, fra le nebbie i monti più lontani del golfo di Termini.
Non pioveva più, ma il cielo era nuvoloso, e il sole appariva come una macchia
bianca, una specie di nebulosa fra il grigiore delle nubi...
Luigi Natoli: I mille e un duelli del bel Torralba.
Pubblicato unicamente a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 1 febbraio 1926 e raccolto in unico volume ad opera della casa editrice I Buoni Cugini editori.
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