Lo Steri sorgeva lì a
pochi passi con la sua massa bruna, le sue belle trifore, le sue decorazioni
bicromatiche; e torreggiava nel cielo serotino, sopra le case basse e sparse in
giro della vasta piazza. Della gente, curiosi i più, si accodò a quel manipolo,
che correva verso lo Steri; la porta del quale, che non era dove è oggi, ma
dalla parte che guarda lo spiazzo della Dogana, era serrata. I congiurati
cominciarono a gridare:
- A morte i traditori!
Ma le grida si perdevano
nello spazio: alcuni picchiavano fortemente al portone, vi tiravano dei sassi;
intanto altra gente accorreva, per la voce che di quel tumulto s’andava
diffondendo per la città; e ciò, alimentando le speranze dei congiurati,
aumentava i loro sforzi. Allora a una finestra si affacciò il duca di
Monteleone, pallido e pauroso.
- Signori miei...
Il clamore delle voci gli
mozzò la parola:
- Vogliamo i traditori!
Vogliamo quelli che han fatto morire i Conti! – Non vogliamo vostre
chiacchiere...
Il duca accennava con le
mani che lo ascoltassero.
Questo interesse pei conti
di Golisano e di Cammarata non era che una trovata per eccitare il popolo che
s’andava raccogliendo e che riteneva i due conti come i suoi difensori. Esso
non capiva nulla della politica, o la concepiva sotto l’aspetto della
diminuzione dei balzelli, del pane a buon mercato e di peso; cose che la
cacciata di don Ugo, della quale il conte di Golisano era stato il
protagonista, aveva ottenuto; e che dal luogotenente duca di Monteleone gli
erano stati ritolti, con l’aggravante dei castighi crudeli, o piuttosto delle
vendette che le anime dannate di don Ugo esercitavano largamente e quasi con
voluttà.
E quell’affermazione che
il conte di Golisano fosse stato assassinato non mancava dal produrre una
effervescenza, dall’eccitare una reazione, dal suscitare un mormorio
minaccioso. Qualche grido uscì dalla folla, e fu il colpo di sprone; quelli che
erano accorsi per curiosità di spettatori, si tramutarono in attori:
- Morte ai traditori dei
Conti!... Morte!...
Il duca di Monteleone vide
il pericolo accrescersi; e siccome qualche sasso volò contro la finestra, si
ritrasse per paura d’essere colpito.
A un tratto squilla alla
vicina chiesa della Gancia un tocco. L’avemaria? La gente si scopre per
recitare la salutazione angelica: ma a quel tocco ne seguono altri più
violenti; e la chiesa della Catena, e la chiesa di san Nicolò della Kalsa,
rispondono: e poi altre chiese più lontane. E sulla città passa come un rombo
di tempesta lontana. Campane a stormo! Il popolo esce dalle case: gli uomini si
armarono; un invito corre di bocca in bocca:
- Allo Steri! Allo Steri!
L’ombra notturna che già
era calata si rompe alle finestre fumose delle torce, che illuminano a sprazzi
biechi profili di gente che ha una rivincita da prendere, una vendetta da
esercitare. Il tumulto si tramutava in sommossa. Giovan Luca guardò la folla
che veniva armata da ogni parte e se ne compiacque.
E già intorno allo Steri
ondeggiava ora una folla, che pareva cozzasse contro le mura incrollabili, come
i marosi contro gli scogli. Alcuni preso un trave, se ne servivano come di
ariete di guerra, e cozzavano contro la porta per sfondarla; e ai colpi sonori
si mescolavano gli urli e la minaccia. I di Benedetto, Girolamo Fàssaro, Iacopo
Girgenti aizzavano la folla: i più feroci propositi esaltavano gli animi
dinanzi alla resistenza della porta. Finalmente essa cedette, e un grand’urlo
di trionfo ne salutò lo spalancarsi fragoroso: un torrente furioso si rovesciò
nel varco; pareva che tutti avessero fretta di entrare; ognuno cercava di
oltrepassare l’altro, per arrivar primo, i portici, la scala s’empirono; tutto
il palazzo pareva tremare e gridare. Dov’erano i giudici? Dov’era il
luogotenente? Li volevano nelle mani Nicola Cannarella, Tommaso Paternò,
Gerardo Bonanno, Priamo Cavozzi, il conte di Adernò, don Giovanni de Luna,
Blasco Lanza... tutti odiati mortalmente, perché partigiani di don Ugo, perché
si ernao sfogati in rappresaglie e vendette, sotto la protezione del duca di
Monteleone, che li secondava. Li cercavano per tutto il palazzo. In uno
stanzino appartato scovarono il duca.
- Eccone uno!... Abbiamo
preso don Ettore!...
Egli non offrì nessuna
resistenza; si lasciò spingere, trascinare fra le minacce, pallido e tremante.
Gli gridavano intorno che era un assassino, che proprio lui aveva scritto al re
per far uccidere i conti; che aveva ordinato ai giudici di essere feroci contro
la povera gente, che voleva opprimere e distruggere il popolo coi balzelli.
Qualcuno gli metteva i pugni sotto il viso: qualche altro gli faceva balenare
dinanzi agli occhi la lama di un coltellaccio. Egli vedeva già prossima
l’ultima sua ora, e recitava mentalmente le sue orazioni per raccomandar
l’anima a Dio. Ma un clamore più alto e uno spettacolo più miserando fermò
coloro che lo spingevano: da un’altra sala veniva una folla imbestialita che
trascinava due uomini insanguinati: erano i giudici Cannarella e Paternò; li
avevano scovati nascosti in una stanza degli uffici, dietro gli scaffali; li
avevano tempestati di colpi; una voce aveva gridato:
- Dalla finestra! Bisogna
buttarli dalla finestra!...
E l’orrenda proposta era
stata accolta con entusiasmo. Ora li trascinavano al nuovo supplizio; ma quei
due non davan segno di coscienza; grondanti di sangue dalle ferite, col capo
chino e dondolante sul petto, sarebbero sembrati morti, se un lamentarsi
rantoloso con avesse rivelato che vivevano ancora. Nessuno si oppose a
quell’atto di inutile crudeltà; e i due corpi furono spinti fuori. Un urlo di
trionfo accolse la loro caduta.
La folla ubriacata dal
sangue, corse altrove. Bisognava trovare gli altri giudici, due vittime sole
non bastavano: dov’era Gerardo Bonanno? Qualcuno si accorse di un uomo che
cercava di appiattarsi, lo rincorse:
- È Bonanno! – gridò.
- Bonanno! – È preso! È
preso! – ripetè la folla precipitandosi. Il malcapitato s’era travestito per
non essere riconosciuto, ma non gli valse: una mazzata gli ruppe il cranio, e
lo abbattè. Allora un uomo gli si precipitò addosso, gli fregò le vesti, lo
mutilò; e alzando quel miserabile trofeo di carne sanguinante, gridò al
cadavere:
- Va’ ora a disonorare le
povere figlie nostre!
Cercavano, invano, Blasco
Lanza, Giovanni de Luna e Priamo Capozzo. Giovanni de Luna, all’avvicinarsi
della procella, non aveva voluto lasciarsi prendere in gabbia: era fuggito dallo
Steri, a cavallo, e varcata la Porta dei Greci, s’era messo in salvo. Il conte
di Adernò s’era allontanato qualche giorno prima; Blasco Lanza era scappato
appena saputo che i congiurati erano nella chiesa della Catena. Il popolo gli
attribuiva la più parte dei mali, se non tutti, lui consigliere di don Ugo; lui
difensore di lui, e accusatore dei conti; lui suggeritore del duca di
Monteleone. Frugarono tutto lo Steri, senza trovarlo.
- Deve essere andato a
nascondersi a san Domenico!...
Nella chiesa di san
Domenico c’era la sepoltura dei Lanza: la folla vi si recò in furia: invase la
chiesa e il convento; cercò nella sepoltura: non vi trovò Blasco, ma vi trovò
il suo tesoro.
Egli ve lo aveva nascosto
fin da quando don Ugo fu cacciato, temendo che il popolo gli saccheggiasse la
casa; e credeva di averlo salvato. La folla si gittò su quella ricchezza, avida
e selvaggia, contendendosi denari e argenterie a pugni, a morsi, a coltellate.
Chi aveva potuto cacciarsi nel potto qualche cosa, fendeva violentemente la
calca e fuggiva; ma qualcuno era inseguito, raggiunto da tre, quattro, che lo
assalivano come cani rabbiosamente affamati. Per la chiesa, pel chiostro, fuori
si moltiplicavano queste lotte spesso per la miserabile preda di una moneta
d’argento. In pochi minuti del tesoro non rimase più nulla: ma quelli che non
avevano potuto strappar nulla, pensarono che c’era da rivalersi sulla casa.
- Andiamo a casa di
Blasco!...
Un urlo accolse la
proposta: quella fiumana di gente si riversò impetuosamente nella strada:
correvano tutti a gara, per arrivar prima al saccheggio. Sfondata la porta del
palazzo, l’onda barbarica ubriacata invase le stanze. Tutto fu strappato,
spezzato, portato via, buttato sulla strada; la magnifica biblioteca ereditata
in gran parte da Leonardo di Bartolomeo, ricca di codici, e ce n’erano anche di
Dante e del Petrarca, parve a quei vandali non contenesse che quella dottrina
male adoperata da Blasco a vantaggio dello straniero; e accumulati i libri vi
diedero fuoco. Poi, quando videro le fiamme apprendersi alla casa, se ne
andarono: e uccisero Priamo Capozzo, e diedero fuoco al palazzo del conte di
Adernò: e i rossi bagliori degli incendi illuminarono quella notte di stragi…
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