mercoledì 24 luglio 2024

Luigi Natoli: Quel 24 luglio 1517... Questo pareva a Giovan Luca un buon indizio per realizzare quella repubblica che egli vagheggiava... Tratto da: Squarcialupo. Romanzo storico siciliano.

 
Squarcialupo era diventato l’arbitro della città, senza essere rivestito di una carica ufficiale. Non era che uno dei giurati. Uno dei primi atti della sommossa era stato quello di cacciare dal comune il Senato, ed eleggerne uno nuovo, sebbene questo non potesse durare in carica appena un mese; perché ogni anno, il primo di settembre si eleggeva il senato e il capitano di città; e se i senatori potevano essere rieletti, non era detto che sarebbero stati riconfermati tutti e Squarcialupo era stato fra gli eletti: ma pretore era stato scelto Giovanni Ventimiglia. Con tutto ciò il capo vero ed effettivo era Giovan Luca, su cui pesava la responsabilità del nuovo ordine, o meglio del disordine. 
La sommossa s’andava propagando: una dopo l’altra le città demaniali e le grosse terre feudali insorgevano; e questo pareva a Giovan Luca un buon indizio per realizzare il suo sogno. Con una concezione anacronistica, che avrebbe risospinta la Sicilia all’epoca dei comuni, egli vagheggiava una confederazione di piccole repubbliche: e per questo, appena gli giungeva la notizia di una sollevazione, si affrettava a mandare ambasciatori e stringeva patti federali. 
Ma la città intanto era in balìa del popolo, che di quella parola repubblica, della quale Giovan Luca gli aveva parlato, non era arrivato a capire altro che i signori non sarebbero stati più i padroni del governo; che il popolo doveva avere la sua parte; e che non ci dovevan essere più gabelle; e aver pane a buon mercato. E per conto suo vi aggiungeva che bisognava sbarazzare la città di tutti i vecchi partigiani di don Ugo, che erano ritornati per la protezione del duca di Monteleone. Quattro giudici uccisi e due palazzi incendiati non bastavano. E ogni giorno bande di popolo minuto, avido di bottino si davano a scorazzare per la città, a dar la caccia a quelli indicati – spesso per private vendette, – come del partito del vicerè, e a saccheggiare le case. 
Giovan Luca lasciava fare, non trovando modo di impedire quegli eccessi, e non volendo d’altra parte alienarsi il popolo, che era la sua forza. E poi abbassare la potenza degli avversari, spargere il terrore, era per lui una buona arma per raggiungere quella meta che si era prefissa. Fra le cure che la sua condizione gli imponeva, aveva quasi dimenticato la signora Lucrezia. La notizia del duello e di quella tentata aggressione preparata contro ogni regola di cavalleria e d’onore, si propagò rapidamente per la città sollevando riprovazioni, sdegni, propositi di vendetta. Passando di bocca in bocca il racconto si alterò, vi si vide non una quistione privata, ma un tentativo di reazione concertato fra il luogotenente generale e i partigiani di don Ugo, per disfarsi di Squarcialupo e di Tristano. 
Così accolto e diffuso nel popolo, provocò una nuova ventata di rappresaglia contro signori e magistrati e spagnoli; ferimenti, saccheggi, incendi, arresti, persecuzioni, che ripiombarono la città nel disordine e nelle violenze. Squarcialupo cercava di frenare gli eccessi, ma invano. Se ne doleva con gli amici, e più coi popolani che avevano preso parte alla cospirazione. Mastro Iacopo diceva: 
- Vossignoria illustrissima ha ragione; ma gli è come quando si scatena un cane lasciato per tanti giorni affamato; una volta lasciato libero, si butta sopra tutto quel che trova, e se lo volete cacciare, si butta addosso a voi e vi sbrana. Bisogna lasciarlo saziare: quando sarà satollo verrà da sé a mettere la testa nel collare. 
Purtroppo era vero; ma era anche vero che a correre dietro il popolo per persuaderlo a non guastare quella che egli credeva una rivoluzione, perdeva tempo, necessario alla realizzazione di quella repubblica che egli vagheggiava... 


Luigi Natoli: Squarcialupo – Opera inedita. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1517, quando Giovan Luca Squarcialupo, patriota, sognò e realizzò anche se per poco, un governo repubblicano. L’opera, mai pubblicata in libro, è costruita e trascritta dal romanzo originale, pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1924.
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 684 – prezzo di copertina € 24,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (sconto 15% - consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su Amazon Prime, Ibs, Feltrinelli e tutti gli store di vendita online.
In libreria presso: 
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita centro commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Libreria Nike (Via Marchese Ugo 56), La Nuova Ipsa (Piazza Leoni 60), Libreria Macaione (Via M.se di Villabianca 102). 

Luigi Natoli: Quel 24 luglio 1517... Campane a stormo! Il popolo esce dalle case... Allo Steri! Allo Steri! Tratto da: Squarcialupo.

 
A un tratto squilla alla vicina chiesa della Gancia un tocco. L’avemaria? La gente si scopre per recitare la salutazione angelica: ma a quel tocco ne seguono altri più violenti; e la chiesa della Catena, e la chiesa di san Nicolò della Kalsa, rispondono: e poi altre chiese più lontane. E sulla città passa come un rombo di tempesta lontana. Campane a stormo! Il popolo esce dalle case: gli uomini si armarono; un invito corre di bocca in bocca: 
- Allo Steri! Allo Steri!
L’ombra notturna che già era calata si rompe alle finestre fumose delle torce, che illuminano a sprazzi biechi profili di gente che ha una rivincita da prendere, una vendetta da esercitare. Il tumulto si tramutava in sommossa. Giovan Luca guardò la folla che veniva armata da ogni parte e se ne compiacque. Mastro Iacopo gli disse: 
- Che vi diceva io? La bestia sonnecchiava, ora si è svegliata. 
E già intorno allo Steri ondeggiava ora una folla, che pareva cozzasse contro le mura incrollabili, come i marosi contro gli scogli. Alcuni preso un trave, se ne servivano come ariete di guerra, e cozzavano contro la porta per sfondarla; e ai colpi sonori si mescolavano gli urli e la minaccia. I Di Benedetto, Girolamo Fàssaro, Iacopo Girgenti aizzavano la folla: i più feroci propositi esaltavano gli animi dinanzi alla resistenza della porta. Finalmente essa cedette, e un grand’urlo di trionfo ne salutò lo spalancarsi fragoroso: un torrente furioso si rovesciò nel varco; pareva che tutti avessero fretta di entrare; ognuno cercava di oltrepassare l’altro, per arrivar primo, i portici, la scala s’empirono; tutto il palazzo pareva tremare e gridare. Dov’erano i giudici? Dov’era il luogotenente? Volevano nelle mani: Nicola Cannarella, Tommaso Paternò, Gerardo Bonanno, Priamo Capozzo, il conte di Adernò, don Giovanni De Luna, Blasco Lanza... tutti odiati mortalmente, perché partigiani di don Ugo, perché si erano sfogati in rappresaglie e vendette, sotto la protezione del duca di Monteleone, che li secondava. Li cercavano per tutto il palazzo. In uno stanzino appartato scovarono il duca. 
- Eccone uno!... Abbiamo preso don Ettore!...
Egli non offrì nessuna resistenza; si lasciò spingere, trascinare fra le minacce, pallido e tremante. Gli gridavano intorno che era un assassino, che proprio lui aveva scritto al re per far uccidere i conti; che aveva ordinato ai giudici di essere feroci contro la povera gente, che voleva opprimere e distruggere il popolo coi balzelli. Qualcuno gli metteva i pugni sotto il viso: qualche altro gli faceva balenare dinanzi agli occhi la lama di un coltellaccio. Egli vedeva già prossima l’ultima sua ora, e recitava mentalmente le sue orazioni per raccomandar l’anima a Dio. Ma un clamore più alto e uno spettacolo più miserando fermò coloro che lo spingevano: da un’altra sala veniva una folla imbestialita che trascinava due uomini insanguinati: erano i giudici Cannarella e Paternò; li avevano scovati nascosti in una stanza degli uffici, dietro gli scaffali; li avevano tempestati di colpi; una voce aveva gridato: 
- Dalla finestra! Bisogna buttarli dalla finestra!...
E l’orrenda proposta era stata accolta con entusiasmo. Ora li trascinavano al nuovo supplizio; ma quei due non davan segno di coscienza; grondanti di sangue dalle ferite, col capo chino e dondolante sul petto, sarebbero sembrati morti, se un lamentarsi rantoloso non avesse rivelato che vivevano ancora. Nessuno si oppose a quell’atto di inutile crudeltà; e i due corpi furono spinti fuori. Un urlo di trionfo accolse la loro caduta. 
La folla ubriacata dal sangue, corse altrove. Bisognava trovare gli altri giudici, due vittime sole non bastavano: dov’era Gerardo Bonanno? Qualcuno si accorse di un uomo che cercava di appiattarsi, lo rincorse: 
- È Bonanno! – gridò. 
- Bonanno! – È preso! È preso! – ripetè la folla precipitandosi. Il malcapitato s’era travestito per non essere riconosciuto, ma non gli valse: una mazzata gli ruppe il cranio, e lo abbattè. Allora un uomo gli si precipitò addosso, gli fregò le vesti, lo mutilò; e alzando quel miserabile trofeo di carne sanguinante, gridò al cadavere: 
- Va’ ora a disonorare le povere figlie nostre! 


Luigi Natoli: Squarcialupo – Opera inedita. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1517, quando Giovan Luca Squarcialupo, patriota, sognò e realizzò anche se per poco, un governo repubblicano. L’opera, mai pubblicata in libro, è costruita e trascritta dal romanzo originale, pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1924.
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 684 – prezzo di copertina € 24,00
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Luigi Natoli: Quel 24 luglio 1517... Squarcialupo entrò nella chiesa della Catena, avvampando di sdegno per l'inerzia del popolo... Tratto da: Squarcialupo. Romanzo storico siciliano

 
I congiurati proseguivano, chiamando il popolo alle armi, quando da una viuzza videro uscire un dabben uomo, archiviario del comune, Paolo Caggio, che al grido e alla vista, spaventato si diede a fuggire. Vincenzo Di Benedetto, che ardeva più degli altri di menar le mani, lo rincorse e lo uccise. Povera vittima incolpevole, e inutile, l’archiviario versò il primo sangue, solo perché Vincenzo Di Benedetto aveva bisogno di mostrare che non aveva tradito! Ma quel sangue non fomentò le ire: destò compianto; e non diede seguito ai congiurati, che percorsero tutta la via Marmorea, uscendo nel quartiere della Loggia; giunsero fino alla Chiesa della Catena, senza aver altri che li seguisse che un giovinotto novizio dei Domenicani, che doveva esser più tardi il loro storico: Tommaso Fazello. 
Giovan Luca entrò nella chiesa, scoraggiato, avvampando di sdegno contro l’inerzia del popolo; si lasciò cadere sopra un banco, delle lagrime gli rigarono il volto, il suo sogno vaniva: aveva spinto quei suoi compagni alla morte, fidando nel popolo; e il popolo li lasciava soli! Che avevano fatto dunque quei popolani che eran con lui, e che passavano per capipopolo? E mastro Iacopo? Nessuno rispondeva alle querimonie di Giovan Luca si guardavano muti e squallidi e disanimati: lo stesso Piededipapera si grattava il capo, non sapendo fare altro. 
Ma poco dopo, superata quella crisi di abbattimento, Giovan Luca si alzò, pareva trasfigurato: 
- Signori – disse – abbiamo giurato di andare o alla vittoria o alla morte. La vittoria ci è mancata; andiamo a morire; per la Sicilia e per la libertà! Avanti!...
Uscì pel primo, e quel manipolo lo seguì, ripetendo il suo grido di morte. Lo Steri sorgeva lì a pochi passi con la sua massa bruna, le sue belle trifore, le sue decorazioni bicromatiche; e torreggiava nel cielo serotino, sopra le case basse e sparse in giro della vasta piazza. Della gente, curiosi i più, si accodò a quel manipolo, che correva verso lo Steri; la porta del quale, che non era dove è oggi, ma dalla parte che guarda lo spiazzo della Dogana, era serrata. I congiurati cominciarono a gridare: 
- A morte i traditori!



Luigi Natoli: Squarcialupo – Opera inedita. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1517, quando Giovan Luca Squarcialupo, patriota, sognò e realizzò anche se per poco, un governo repubblicano. L’opera, mai pubblicata in libro, è costruita e trascritta dal romanzo originale, pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1924.
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Luigi Natoli: La rivolta di Giovan Luca Squarcialupo, quel 24 luglio 1517... Tratto da: Squarcialupo. Romanzo storico siciliano.

Entrarono dalla Porta Nuova, come una comitiva di amici; la porta era aperta, i gabellieri al loro posto, tranquilli; nessun indizio di sospetti. Poiché non era ancora l’ora del vespro, Giovan Luca entrò coi compagni nella vicina chiesa di San Giacomo, che era deserta. E là concertarono ancora quale dovesse essere l’opera di ognuno e di tutti. Piombare nel Duomo, con le armi in pugno, sorprendere il duca di Monteleone, impadronirsene, uccidere chi osasse resistere, e i giudici che tanto odii avevano suscitato: insignorirsi del potere, ma non ripetere la sciocchezza commessa l’anno innanzi, quando fu cacciato don Ugo. 
Ed ecco il campanone del Duomo sonare a Vespro: e ogni colpo rimbombare nel cuore di ognuno, e farlo balzare. È l’ora. Si scambiano uno sguardo; e taciti, pensosi di quel che fra un istante avverrebbe scendono verso il Duomo. La grande porta è spalancata; il sole illumina il bel prospetto e ravviva la patina dorata distesa dal tempo sulla pietra e sul marmo. Si sente il canto snodarsi lento e solenne; in quel momento, pensano, il luogotenente si è seduto nel soglio. Entrano, corrono verso l’abside maggiore, tra i fedeli stupiti di quella irruzione a mano armata; ma quale delusione! V’erano i canonici, v’era l’arcivescovo; non c’era né il luogotenente generale, né i magistrati, né il senato. 
Come? Perché?
Un sagrista, che al vederli entrare armati, s’era messo a gridare: – Sono qui! Sono qui! – cercando di fuggire; raggiunto, spiegò loro che il duca aveva saputo che volevano ammazzarlo, e non era uscito dallo Steri. Questa risposta stupefece tutti: l’aveva saputo? Da chi? c’era un traditore dunque fra loro? Giovan Luca guardò con occhi lampeggianti d’ira i suoi compagni – Chi è il Giuda? – gridò.
Ma tutti protestarono vivacemente e fieramente. Il traditore non era fra loro: essi erano tutti lì pronti a ogni rischio, e Giovan Luca aveva torto ad offenderli. Ma Vincenzo Di Benedetto, fratello di Cristoforo, si diede un pugno sulla testa, e sclamò: 
- Ah il gesuato! Il gesuato!... deve essere stato lui!...
E raccontò che due giorni innanzi si era confidato con un frate dell’ordine dei Gesuiti, il quale si doleva di quel che facevano i giudici e i partigiani di don Ugo, che ancor rimanevano; e lui lo aveva creduto uno dei nostri, che sarebbe stato utile per levare il popolo: ciò che il frate aveva promesso. 
- Non ho tradito, ho avuto forse troppa fiducia, se credete che io sia colpevole, punitemi! Ma non mi dite traditore. 
Giovan Luca si rattristò. Certo la confessione di Vincenzo Di Benedetto così spontanea e sincera, lo purgava dall’accusa di tradimento: ma la sua facilità a confidare il giorno e l’ora della rivolta, aveva mandato a monte la sorpresa e compromessa la riuscita. Ah! avere quel frate nelle mani. A ogni modo il dado era tratto: bisognava andare innanzi, alla vittoria o alla morte. Uscendo dalla chiesa, Giovan Luca, levando in alto la spada, gridò: 
- A morte i traditori!... Cittadini, all’armi!
E i compagni ripeterono il grido. Ma nessuno uscì dal Duomo per seguirli, e la gente che si affacciava sulle soglie delle botteghe e delle case, o che andava per le vie, guardava meravigliata, non sapendo che fosse, Vincenzo Di Benedetto agitava la spada, gridando, e gli altri con lui, invano: 
- Viva il re! Muoiano i traditori!...
Scesero per la via Marmorea: soli, senza seguito, il popolo guardava e li lasciava passare, senza neppure secondare quel grido. Era una cosa inconcepibile: mastro Iacopo se ne sdegnava: apostrofava gli imbelli, che stavano a vedere, come fossero a uno spettacolo; li sferzava con male parole:
- E che? siete sordi? Che aspettate, che vi impicchino, figli di cani? Siete diventati dunque tante carogne, che non vi sentite fremere il sangue? Il re di Fiandra fa morire i Conti, quei Conti che andavano là per difendervi, e voi ve ne state con le mani alla cintola? Puh! Vili!
Ma nessuno si moveva: quei ventidue cavalieri percorrevano la via Marmorea, gridando, come anime sperdute. Avessero almeno trovato una resistenza! Ma dove erano le milizie spagnole? 


Luigi Natoli: Squarcialupo – Opera inedita. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1517, quando Giovan Luca Squarcialupo, patriota, sognò e realizzò anche se per poco, un governo repubblicano. L’opera, mai pubblicata in libro, è costruita e trascritta dal romanzo originale, pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1924.
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lunedì 22 luglio 2024

Luigi Natoli: Paolo Pollastra e trenta popolani furono condannati a morte... Tratto da: Squarcialupo. Romanzo storico siciliano

Qualche giorno dopo, la quiete succedeva alla tempesta, almeno in apparenza: Paolo Pollastra e più di cento popolani furono arrestati, non ostante che si domandasse il perdono per tutti. Il viceré, che non aveva saputo o voluto impedire il tumulto e le stragi, ora, a cose quiete volle sfogare le sue vendette; e Paolo Pollastra e trenta popolani furono condannati a morte. Quello, come nobile, doveva esser decapitato, gli altri impiccati.
Lo spettacolo di una così grande giustizia era così nuovo, che la piazza Marina era stipata di curiosi. Il Sant’Offizio aveva offerto supplizi di dieci e più persone in una volta: ma trenta impiccati in uno stesso spettacolo, non si erano mai veduti. Erano state drizzate di qua e di là dal palco per la decollazione, sei forche, con cinque nodi scorsoio per ciascuna.
La folla dunque, era immensa, nella piazza, allora più vasta e con pochi irregolari gruppi di case. Dame e cavalieri a cavallo vi erano intervenuti, e avevano occupato il posto migliore; molti stavano alle finestre dello Steri, il magnifico palazzo chiaramontano, che i Viceré avevano scelto per loro dimora; e vi stava anche il viceré coi giudici della magna Curia.
Come tutti gli altri anche Tristano andò al macabro spettacolo: e se ne stava in un posto donde poteva ammirare le belle dame di Palermo. Accanto a lui si trovava Giovan Luca Squarcialupo, che aveva per Tristano la simpatia e la benevolenza di un fratello maggiore. Se Tristano, come un puledro che sente i primi fremiti e con le froge aperte annusa nell’aria l’odore della giumenta, ammirava e aspirava il profumo della bellezza muliebre, Giovan Luca guardava torbido lo spettacolo orrendo dei corpi che pendevano dalle travi, ancor guizzanti negli spasmi dell’agonia, dalle travi infami. Paolo Pollastra fu decapitato per ultimo.
- Ecco – diceva – come finiscono questi tumulti senza un piano, senza una meta! E quel disgraziato di Paolo Pollastra che ha creduto davvero di diventare il padrone di Palermo, perché tutta la marmaglia lo ha seguito e lo ha acclamato!… Ora, sconta la sua superbia… Credete quello che vi dico io, Tristano: non si fanno sommosse, senza un piano, senza un pensiero, senza un uomo di conto e autorevole che sappia quel che vuole. E bisognerebbe persuadere gli amici artigiani e i borghesi che non insorgano se non quando la nobiltà scende in campo… Che questa nobiltà si muove solo per difendere i propri interessi, non quelli del popolo… Ma che pensate?
- Ah – disse Tristano, riscosso – scusatemi: ero così distratto…
- Che non avete udito…
- Ve le domando scusa, Giovan Luca…
Questi sorrise.
- Andiamo! Avete forse una innamorata fra quelle dame?
- Oh che dite? Nessuna!…
- Non ci sarebbe nulla di strano alla vostra età. Se non v’innamorate ora quando ci penserete? Ma non voglio penetrare nei vostri segreti. Parlavo di questi supplizi e della fine a cui Paolo Pollastra fu trascinato dalla sua presunzione… Ma ne parleremo. Voi siete uno di quelli da fidarsene…
Disse ancora qualche cosa, e se ne andò.
- Addio Tristano Buondelmonti.
- Addio. Giovan Luca Squarcialupo.
Tristano lo seguì con lo sguardo, ripetendosi quelle parole che a lui parevano oscure, e cercandone il significato; ma a poco a poco si distrasse; la folla cominciava ad andarsene, rattristata e commiserando “quei poverelli”; le dame e i cavalieri ritornavano, discorrendo; e il giovane si trasse da una parte per veder passare da vicino quelle dame giovani e belle che aveva ammirato da lontano, alcune delle quali conosceva di persona, altre di nome. Egli salutava le prime, con bel garbo, lieto dei sorrisi che accompagnavano il cenno del capo: alcune – ed erano le più giovani e le più mature – lo guardavano con compiacimento; ed egli ne arrossiva di piacere.
(Nella foto: disegno di Amorelli, Giornale di Sicilia) 




Luigi Natoli: Squarcialupo – Opera inedita. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1517, quando Giovan Luca Squarcialupo, patriota, sognò e realizzò anche se per poco, un governo repubblicano. L’opera, mai pubblicata in libro, è costruita e trascritta dal romanzo originale, pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1924.
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Luigi Natoli: La rivolta di Paolo Pollastra. Tratto da: Squarcialupo, romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo degli inizi '500

Tristano ritornava a casa, quando dall'alto della piazza di Ballarò veniva una fiumana di gente armata, in mezzo alla quale, un cavaliere a cavallo, agitava la spada sguainata. La folla urlava grida di morte:
- Ammazza gli spagnuoli! Ammazzali!
Il balenìo delle armi accompagnava ferocemente le parole; e tutto intorno pareva scosso e sollevato dall'odio, come i marosi dal vento.
Tristano si fermò, guardando con stupore e non senza pena. Per quanto gli spagnuoli fossero stranieri, e non si fossero mai cattivato l'amore dei siciliani, per la loro albagia, e i loro arbitrii, e per quanto i soldati, spinti dalla fame, avessero commesso violenze, egli ricordava di aver militato con loro e di aver fra essi buoni compagni. E prevedeva che quel furore popolare avrebbe immerso la città in un lavacro di sangue, tra scene spaventevoli di orrore. Quando la folla fu più vicina riconobbe il gentiluomo che pareva se ne fosse fatto capo.
Era il magnifico Paolo Pollastra, un cavaliere, che nel quartiere dell'Albergheria godeva di grande reputazione di bravura, e fra quella gente rissosa faceva spesso da arbitro, ubbidito e seguito.
La notizia delle prime uccisioni, era giunta subito a lui; che sceso di casa armato, salito a cavallo, a grande voce aveva raccolto a sè i popolani più maneschi: ai quali via via si erano uniti gli altri, e la fiumana ingrossata, scendeva minacciosa.
- È tempo di finirla! – gridava il signor Paolo: – fuori questi barbari! Vogliamo esser padroni in casa nostra!... Fuori gli spagnoli!
E la folla acclamava; ma oltrepassando il pensiero di messer Paolo, invece di limitarsi alla espulsione gridava che bisognava uccidere, bisognava scannarli quegli stranieri odiati. Un nuovo Vespro. A Tristano parve una esagerazione inumana. Facendosi largo si avvicinò a messer Paolo, e fermandogli il cavallo, gli disse:
- Che cosa fate, magnifico? Volete spingere la città alla rivolta?
- È tempo! – rispose il cavaliere – abbiamo tollerato troppo questi stranieri.
La folla scese nel cuore della città, invase la piazza del palazzo pretorio, gridando contro il pretore e i giurati; quand'ecco dall'altro lato, si sentì un mugghio di tempesta: e dai vicoli si vide venire degli spagnoli atterriti, qualcuno con volto insanguinato, che cercavano uno scampo, e dietro a loro torme di plebei furibondi, che li incalzavano urlando:
- Ammazzali! Ammazzali!
Allora quelli che seguivano Paolo Pollastra, eccitati dalla caccia e dal sangue, diedero addosso a quei miseri; l'improvviso scomporsi, sprigionò Tristano, che non potendo, solo com'era, opporsi a quella moltitudine insensata e feroce, si ritrasse nella vicina chiesa di Santa Maria dell'Ammiraglio, detta della Martorana. E giunse appena in tempo; perché il sagrestano, temendo che in quel tumulto potessero invadere la chiesa e saccheggiarla, ne chiudeva le porte.
Ma poco dopo ebbe vergogna, lui soldato, d'aver ceduto all'istinto della salvezza, e poiché il tumulto si era allontanato, non trova alcuna difficoltà a farsi aprire. Uscì col proposito di cercare persone più autorevoli che non lui, giovanissimo, per far cessare la inutile strage. Andando verso la Loggia, si imbattè in un giovane cavaliere che godeva buona reputazione, il signor Giovan Luca Squarcialupo.
Verso sera, Don Pietro Cadorna conte di Golisano, don Federico Patella (veramente si chiamava Abatelli) conte di Cammarata, ai quali si erano uniti il marchese di Licodia, Matteo Santapau, il conte di Geraci Simon Ventimiglia, il signor di Militello, Giovan Luca Squarcialupo, Tristano ed altri signori, a cavallo, andarono per le strade ove maggiore era il tumulto, e con le esortazioni, le minacce, le promesse: con l'autorità del nome e il prestigio di valore e di generosità che specialmente rendeva ben accetto il conte di Golisano, disarmavano gli animi. Ma vi concorrevano anche alcuni religiosi e qualche popolano; quelli con la minaccia di scomuniche, questo con le arguzie.
Niente disarma più è meglio della risata; e mastro Jacopo Piededipapera lo sapeva...


Luigi Natoli: Squarcialupo – Opera inedita. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1517, quando Giovan Luca Squarcialupo, patriota, sognò e realizzò anche se per poco, un governo repubblicano. L’opera, mai pubblicata in libro, è costruita e trascritta dal romanzo originale, pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1924.
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Luigi Natoli: Squarcialupo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di inizio '500.

Giovan Luca Squarcialupo apparteneva a una di quelle famiglie pisane, che esercitando traffici e tenendo banchi, avevano acquistato ricchezza e nobiltà. Era giovane. Pochi anni innanzi aveva preso moglie; ma dieci mesi dopo era rimasto vedovo. Viveva quasi appartato, badando al banco, e coltivando lo spirito con la lettura. Era stato alunno di un dotto umanista, che gli aveva fatto prendere amore ai grandi scrittori latini; ed egli leggeva con preferenza Livio e Virgilio. Ma leggeva anche certe cronache manoscritte della repubblica di Pisa, e altre del regno normanno e svevo di Sicilia e del Vespro. Abitava nella strada della Loggia dei Pisani, proprio quella che anche oggi conserva l’antico nome. Molte famiglie della “nazione” pisana stavano da quella parte, e nella strada di san Francesco: e gli Squarcialupo venivan da Pisa, e avevano il loro banco nella Loggia. Allora la strada si prolungava, perché la via Marmorea o Cassaro finivano a Sant’Antonio: e dovevan passare cinquant’anni all’incirca, perché fosse prolungato fino alla chiesa di Porto Salvo, tagliando strade, e abbattendo case.

IL PERSONAGGIO

... Disse queste parole con un tono così solenne e profetico, che il vecchio barone lo guardò con maraviglia e ammirazione. Giovan Luca gli sembrò più alto, più grande, con l’aspetto di uno di quei personaggi eroici della storia evocata. Borbottò qualche parola, ma parve rimettersi. Subiva il fascino di quella voce, di quel gesto, di quella passione per la libertà che sfavillava negli occhi del giovane, e lo illuminava di una nuova luce.
... Parlava col volto acceso da una fiamma interna, che rendeva calda e appassionata la parola. Tristano, sebbene avesse gran premura di andarsene, ne rimaneva talvolta preso, e lo ammirava: e gli pareva che Giovan Luca si ingrandisse, e si illuminasse di una luce nuova. Non era più quel pensoso, che pareva sdegnoso di parlare, o parlava breve e a sentenze: pareva qualcosa fra l’oratore e il condottiero; un sovvertitore di popolo e un dominatore. Certamente aveva un’idea, che non rivelava ancora, forse era l’idea madre, dalla quale si generavano tutte le sue azioni, anche caute, quasi saggiature; ma che al momento opportuno, si sarebbero svolte in tutta la loro pienezza. Con tutto ciò appariva agli occhi di Tristano come un uomo nuovo.

"...All’amore per la donna ho sostituito un altro amore, del quale Lucrezia non può essere gelosa: quello per questa terra nostra. Ed è amore grande e puro anche questo, Tristano. Forse più grande dell’altro, perché domanda sacrifizi, e non dona: e tuttavia rende immortali gli uomini".

"...Prima di essere innamorato voi eravate cittadino; e la terra che vi diede i natali, la terra che i vostri occhi videro per la prima, deve seder prima nella vostra mente, nel vostro cuore!... Ah! ecco perchè non sappiamo riprendere l’antica indipendenza: ecco perché non sappiamo esser liberi!... Le anime nostre si sono avvilite nell’egoismo, e al bene comune antepongono il proprio tornaconto... Io credevo di aver forgiato il vostro cuore, Tristano: di avervi trasfuso una parte della fiamma che arde nel mio; pensavo che voi sareste stato domani l’eroe della patria: Bruto o Camillo, Giovan da Procida o Alaimo da Lentini... Ahimè! voi preferite rassomigliare all’eroe di cui portate il nome e languire d’amore!... Levatevi su, Tristano Buondelmonti!... La patria prima di tutto!..."

Giovan Luca attendeva a preparare i modi e i mezzi per attuare quel suo vecchio disegno di riscossa per cacciare lo straniero, e istituire un governo democratico, come quello che fece la gloria di Pisa. Era l’idea accarezzata fin da quando cominciò a leggere le pagine di Livio, maturatasi col progredire negli studi umanistici, fattasi assillante in quei rivolgimenti, e allo spettacolo delle violenze e delle ladronerie del vicerè don Ugo. Che quelli non fossero tempi di repubblica, che questa repubblica vagheggiata da lui era un anacronismo, sfuggiva alla esaltazione del suo spirito, che lo illudeva di speranze e di sogni eroici.
(Nella foto: La lapide che ci ricorda l'atto eroico e il sacrificio di Giovan Luca Squarcialupo)



Luigi Natoli: Squarcialupo – Opera inedita. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1517, quando Giovan Luca Squarcialupo, patriota, sognò e realizzò anche se per poco, un governo repubblicano. L’opera, mai pubblicata in libro, è costruita e trascritta dal romanzo originale, pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1924.
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 684 – prezzo di copertina € 24,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (sconto 15% - consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su Amazon Prime, Ibs, Feltrinelli e tutti gli store di vendita online.
In libreria presso: 
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita centro commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Libreria Nike (Via Marchese Ugo 56), La Nuova Ipsa (Piazza Leoni 60), Libreria Macaione (Via M.se di Villabianca 102). 

lunedì 15 luglio 2024

Luigi Natoli: Il cadavere deposto sui gradini della statua di S. Rosalia. Tratto da: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano.

 
- Fratelli carissimi, la santità del tempio è stata profanata. Giuda ha visitata la casa di Salomone, e ha venduto i suoi fratelli. Il nostro segreto è violato; le nostre vite sono alla mercè della tirannide; la nostra causa, la causa dell’umanità, è stata tradita; il traditore è fra noi. Egli si è insinuato nell’anima pura di un nostro fratello; si è fatto credere pieno di entusiasmo per la buona causa; ha chiesto a voi di aprir gli occhi alla luce; ha giurato qui, sotto gli occhi vostri, l’inviolabilità del segreto... E per opera sua quel nostro fratello è proscritto, spogliato, posto a taglione; per la sua delazione il Luogotenente generale è informato dei nostri lavori, e forse in quest’ora stessa sono sguinzagliati contro di noi sgherri e caporali... E pure egli osa venire fra noi; il suo piede sacrilego oltrepassa la soglia sacra; e il suo volto simula, sotto la maschera della fraternità, il tradimento e la perfidia!...
Un mormorio sommesso, ma grave di minaccia percorse le bocche; gli sguardi scintillavano e si incrociavano sotto le maschere nere. Stefano Pascale, pallido, muto, sentiva un freddo sudore bagnargli la fronte, e le gambe tremargli; pure cercava di dominarsi, affettando un sorriso impudente di semplicità e di stupore.
Il Venerabile, dopo un istante di silenzio, riprese:
- Stefano Pascale, avvicinatevi all’ara.
Un silenzio sepolcrale seguì alle parole del Venerabile. L’accusato non aveva osato ribattere; s’era visto perduto. In quel momento tre colpi furono battuti alla porta. Una voce dall’esterno gridò:
- I profani invadono il tempio!...
I due sorveglianti e il “fratello terribile” si avvicinarono alla porta e aprirono.
- La polizia! la polizia!!...
- Impadronitevi del traditore – sclamò il Venerabile, – e coprite il fuoco!...
Un tumulto di voci, un agitarsi di mani, un confondersi di persone seguirono immediatamente a quelle parole: tutti si strinsero attorno a Stefano Pascale; dei pugnali balenarono:
- Traditore! traditore! 
La paura, l’odio, la vendetta si erano impadroniti degli animi. 
Il Venerabile gridò:
- Fratelli, riprendete il dominio del vostro spirito. Salvate il tempio e impadronitevi del traditore... Coprite il fuoco... e aprite la postierla.
A ognuno di questi ordini succedeva un frettoloso affaccendarsi con un febbrile tumulto di gesti e di voci sommesse.
Stefano Pascale, che al grido dell’allarme aveva sentito l’animo aprirglisi alla speranza, s’era trovato circondato, stretto, legato e imbavagliato prima ancora che avesse avuto il tempo di difendersi e di gridare.
Stridendo sui cardini, una porticina, dapprima invisibile, s’era improvvisamente spalancata in una parete. Le sette lampade allora si spensero: il tempio cadde nell’oscurità più fitta, l’orrore della quale era aumentato da un lumicino lontano che si intravedeva nel vano della porticina, simile a un faro in un cielo nero e spaventevole.
- Espiate il delitto! – disse cupamente la voce del Venerabile.
A uno a uno i fratelli, simili a ombre fantastiche, si dileguarono nell’oscurità del cammino misterioso, che si sprofondava come una gola nera e senza fine. Stefano Pascale li seguiva con l’occhio esterrefatto, l’anima sospesa a un’angoscia mortale, tendendo l’orecchio a ogni rumore, attaccandosi al filo debolissimo di una lieve speranza. Udiva dall’altra parte un picchiar imperioso, e tremava, e affrettava col desiderio il sopravvento della sbirraglia da lui avvertita per impadronirsi in un colpo di tutti i fratelli. Ma a ogni ombra che si dileguava nel cammino segreto, il cuore si stringeva. La salvazione non giungeva. Un sudore gelato gli bagnava la fronte... A un tratto si sentì sollevare, trasportare, sprofondare nelle viscere della terra, e udì il cigolio della porticina che si richiudeva sopra di lui...
Un istante dopo la porta del tempio veniva atterrata dai calci dei fucili; una folla di soldati, con la baionetta in canna, si precipitò nella sala, sulla quale le lanterne dei gavarretti gittavano un’onda di luce rossastra.
Inutile e ridicolo furore.
La sala era vuota: l’ara, i seggi, i simboli, le insegne, tutto sparito; rimanevan le pareti nere, insignificanti. 
- Nessuno? non c’è nessuno?... 
Ma intanto che essi sfogavano la loro delusione, scalfendo con le baionette le pareti e spezzando i mattoni col calcio dei fucili, due uomini attraversavano sotto la pioggia il piano della cattedrale, e deponevano sui gradini della statua di S. Rosalia un sacco, dal quale un sottil filo di sangue scendeva e si confondeva con l’acqua.
Mentre questi avvenimenti si svolgevano nella loggia massonica, un altro dramma avveniva nella salita dell’Angelo Custode...




Luigi Natoli: Calvello il bastardo – Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine Settecento, quando la Rivoluzione Francese portò in tutta Europa le prime idee di libertà dei popoli. Il protagonista Corrado Calvello è affiancato dal patriota e giureconsulto Francesco Paolo Di Blasi. 
L’opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato dalla casa editrice La Gutemberg nel 1913.
Copertina di Niccolò Pizzorno 
Pagine 880 – Prezzo di copertina € 25,00
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venerdì 12 luglio 2024

Luigi Natoli: Oggi è la festa di Santa Rosalia! Tratto da: I mille e un duelli del bel Torralba. Romanzo storico siciliano

 
L’arrivo di Fabrizio troncò il racconto delle maravigliose imprese. Il giovane si trasse di tasca un piccolo astuccio e l’offerse a Rosalia. 
- È la vostra festa – le disse – accettatelo come ricordo. 
Era un bel cammeo incastrato in una spilla d’oro, contornata di diamantini. Rosalia arrossì di piacere: e rivolse a Fabrizio uno sguardo di riconoscenza, mentre gli porgeva le mani. Il marchese borbottò:
- Diamine! È vero: oggi è la festa di santa Rosalia! come mai non ci ho pensato?
- Noi ceneremo insieme stasera – disse Fabrizio – ma prima voglio che godiate la vista di una delle nostre passeggiate, che è forse una delle più belle d’Italia. Voi a Napoli, col vostro mare, non avete nulla di simile.
Era l’ora della passeggiata alla Marina, che quell’anno si prolungava ancora. Rodrigo aveva fissata per quell’ora una bella carrozza tirata da due cavalli con un servizio di staffieri ritti sul predellino di dietro: c’era una rimessa nella strada dell’Alloro che dava a nolo di queste carrozze ai forestieri, per sedici o diciotto tarì: vi figurava come proprietario uno speculatore, ma si sussurrava che i capitali glieli avesse forniti un signore della nobiltà, che naturalmente ne traeva guadagni. Di queste carrozze non si servivano soltanto i forestieri, ma anche gli uomini del foro o alti impiegati che non possedevano carrozza propria, e ai quali pareva un degradarsi andare a piedi alla marina, o servirsi dei larioli, ossia delle vetture comuni da nolo, che i proprietari Bruno o Montalbano tenevano in piazza.  
La Marina, battezzata di recente col nome di Foro borbonico, offriva allora uno spettacolo scenografico che i posteri si affrettarono a distruggere con quella bestiale insipienza che i nostri vecchi – e non c’era allora l’istruzione obbligatoria – non avevano quando si trattava di ornare la città. I due bastioni del Tuono e di Vega che la ingombravano, erano stati abbattuti per dare maggiore spazio alla passeggiata. Nel mezzo c’era la carreggiata, presso a poco nelle stesse proporzioni d’oggi; dalla parte del mare un marciapiedi, che da un lato aveva scogliere e muriccioli; dalla parte della città il largo marciapiedi lungo la cortina, da Porta Felice a Porta dei Greci. Questa era la parte monumentale; due fontane poste alle due estremità, ornate di statue una delle quali eretta fin dal 1582, spandevano da copiosi zampilli acqua nelle duplici vasche; fra esse si ergevano su piedistalli decorati le statue di Carlo II, Filippo V, Carlo III e Ferdinando IV. Nel mezzo sorgeva il “teatrino” o palchetto per la musica, nella sua architettura secentesca, così originale, alla quale si volle sostituire quella fredda imitazione classica che tuttora conserva. La cortina non era coperta dalle insipide bugne, che danno un aspetto di bastione, come oggi; era invece dipinta: rappresentava una serie di grandi arcate marmoree, con balaustre, statue, vasi imitanti il marmo; e sfondi di piante e uccelli, e cieli percorsi da nuvole rosee. 
Questo porticato scenografico era interrotto da sei casini, che sporgevano alquanto fuori del filo della cortina: e si addentravano sotto il terrapieno del bastione e appartenevano a signori di grande nobiltà, che d’estate vi si recavano, e tenevano conversazione. Sull’alto della cortina, correva un muretto, interrotto da pilastri sui quali c’erano le statue dei re normanni, svevi, aragonesi: ma da parecchi anni erano state tolte; ora v’erano dei vasi. Lassù nel terrazzino era la passeggiata delle vedove, che aveva fatto dare a esso il nome di Mura d’i cattivi, chè nel dialetto cattiva vuol dir vedova. Statue, fontane, pitture, davano alla passeggiata un aspetto monumentale, che ora ha perduto, al quale faceva riscontro l’ampia curva del golfo, col suo piano or profondamente azzurro, or opalino, col monte Pellegrino da un lato, col capo Zafferano dall’altro, vestito in quell’ora dalla luce del sole leggermente dorata che dava alla roccia un dolce color violaceo. 
Quando la carrozza di Fabrizio uscì da porta Felice, e agli occhi di Rosalia si dispiegò il doppio scenario, non potè trattenere un piccolo grido di maraviglia. Il marciapiedi era affollato, pareva che tutta la città vi si fosse data convegno; gente di tutte le gradazioni dei civili, cioè del ceto medio che viveva di lavoro: impiegati, gente del foro, mercanti, militari, frati, collegiali, patriarcali, ragazze pudiche, donne imbellettate e un po’ troppo libere di modi, madri guardinghe; mariti gelosi; una folla immensa, varia; uno scarpiccìo, un brusìo, sul quale si levavano in cadenza le voci dei venditori di semi e fave abbrustolite, o di acqua fresca. Sulla carreggiata era un via vai vertiginoso di carrozze a due o a quattro cavalli, con cocchieri imparruccati, il “cacciatore” e gli staffieri dietro; gente a cavallo, giovani aristocratici e ufficiali di vari corpi; uniformi rosse, verdi, azzurre, con grandi ricami d’oro e d’argento, con spalline abbaglianti, gente in “tarioli” o in “timonelle” che guizzavano come fulmini: carrozze, livree, finimenti, luccicavano di vernici, di metalli: le vesti e le acconciature delle donne eseguite sul figurino di Parigi, splendevano nei loro vivaci colori; gli uomini anche della borghesia di una eleganza irreprensibile; in tutto un lusso aristocratico, una ricchezza fine, un gusto che stupivano sempre più Rosalia. 
- Par di essere a Parigi...
In quel momento il concerto musicale che era sul palchetto cominciò a sonare; e allora le carrozze si fermarono presso il palchetto, e la folla tacque per gustare il pezzo della Serva Amorosa, con l’attenzione che rivelava la innata passione dei cittadini per la musica. 
 Il tramonto ora ammantava di porpora il capo Zafferano e le cime occidentali del monte Pellegrino: il cielo diventava sull’orizzonte di un color d’amaranto, e il mare appariva a riflessi cangianti ceruli e rosei, come di seta. Le carrozze riprendevano la loro corsa: presso Porta di Greci, un burattino dal suo castelletto divertiva uomini e ragazzi con le avventure di Pulcinella. Alla estremità opposta, presso la Sanità, pescatori, navicellai, popolani, si affollavano intorno a un uomo, che, ritto sopra un tavolino, gesticolando con uno spadino in aria, narrava le avventure dei paladini: lungo la spiaggia, verso la Villa Giulia, che già insuperbiva delle sue piante chiomate, altri pescatori tiravano in secco le barche; solitaria e quasi appartata in questa porta non frequentata passeggiavano delle coppie di innamorati: dal lato opposto, accanto alla Porta dei Greci, dei tavolini coperti di tovaglie indicavano una trattoria. Ve n’erano un paio; ritrovi notturni degli eleganti; dove i signori erano sicuri di trovare pesce quasi ancor vivo e buon vino e manicaretti appetitosi; ed eran serviti con argenteria. 
Era uno spettacolo vario, che si componeva e scomponeva di colori, luci, forme, come in un caleidoscopio, e che empiva di maraviglia Rosalia, alla quale dava l’idea di una città felice, dove la gente non aveva altro da fare che godere la vita. 


Luigi Natoli: I mille e un duelli del bel Torralba. Romanzo storico siciliano. 
Opera inedita, fedelmente trascritta dal romanzo pubblicato unicamente a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1937.
Pagine 456. Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno. 
Il volume è disponibile:
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (sconto 15%, consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
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martedì 9 luglio 2024

Luigi Natoli: La peste. Tratto da: Palermo al tempo degli Spagnoli 1500-1700.


Ma il disastro non si restò; chè i cadaveri insepolti e le immondizie accumulate appestarono l’aria, e scoppiò una fiera pestilenza, che nello spazio di cinque mesi spense ottomila cittadini, come fa fede l’Ingrassia nelle sue “Informationi del pestifero e contaggioso morbo, ecc...”e i morti furono tanti”, dice un cronista, “che si seppellivano due in una stessa cassa”. 
Nel 1575 si ebbe un’invasione di peste bubbonica. Una galeotta proveniente dall’Egitto cominciò col portarla in Siracusa, e di là a più città del litorale e poi a Palermo, dove scoppiò il 9 di luglio colla morte di una donna, che aveva avuto commercio col Capitano della galeotta, nei pressi di S. Domenico. Poi morirono altri due frati di S. Domenico, per cui fu barricato il convento e dato ordine che ogni cosa fetida si bruciasse e le strade si ripulissero. Al male si aggiunse la fame. Si adibì la Cuba ad ospedale, e si presero altri provvedimenti per isolare gl’infetti e chi aveva pratica con loro, per lavare, per bruciare la roba infetta: sicchè il morbo si restrinse e dal 2 di luglio dell’anno seguente non vi fu più l’ombra di peste. Si deve a Giovan Filippo Ingrassia ed ai suoi saggi provvedimenti come protomedico della città, se in un anno non vi furono spenti che solo tremila persone. 
E dopo ci fu un’altra peste, più tremenda di questa. Fu nel 1624 e scoppiò in Palermo nel giugno. E qui, trattandosi di cose miracolose, lascio la parola al canonico Mongitore:“Si chiusero” – dice il canonico – “i Tribunali, si proibirono i commerci e le pubbliche adunanze. Aprirono lazzaretti, forniti del bisognevole mantenimento degl’infermi; provvidero alla minuta gente del quotidiano vivere... insomma non risparmiossi fatica alcuna e niuna spesa che fosse riputata giovevole per tenere in freno questo gran male, arrivandosi in tale occasione a spendere del pubblico tesoro di oltre seicentomila scudi... Ma non restando in nulla mortificata la violenza di questo male, facendo dappertutto crudelissima strage, parve a tanti ripari dell’umana provvidenza vedersi aggiungere degli altri sopprannaturali e divini. Perciò il zelante prelato (l’arcivescovo Doria) ordinò che in tutte le chiese della città si facesse l’esposizione del divinissimo Sacramento... Fece che tutti gli ordini religiosi nella sua giornata in divote processioni andassero al maggior Tempio... Infine il Cardinale ordinò una solenne processione di tutto il clero in abito di penitenza, per muovere maggiormente il Popolo a contrizione delle colpe con condurre le casse di Santa Cristina e Santa Ninfa seguitate dall’afflitto Pastore in abito di cordoglio. A già correano il 15 luglio e la peste seguiva a far crudelissimo scempio; quando sul farsi il dì cominciò la dolorosa processione invocendosi con sospiri e lacrime di compunzione il nome di ogni santi... i cantori... invocarono il nome di Santa Rosalia”, che divenne da allora la Protettrice principale della città.
Ma respiriamo aria più sana e che conforta il nostro spirito, e solleviamoci pure alla luce che s’irradia dal sacrificio. Nel 1624, nella peste, i Gesuiti, i Domenicani, i Cappuccini, gli Agostiniani, gli altri ordini religiosi, i preti secolari, danno mirabile esempio di sé; soli o accompagnati corrono con l’ostia e con l’olio santo, si cacciano dovunque sentono che la morte si avvicina, soccorrono, aprono il cuore alla speranza, e pagano anch’essi il tributo alla morte. Onore a loro, e con loro ai medici caduti anch’essi nella lotta contro l’inflessibile. 
(Disegno di Niccolò Pizzorno)


Luigi Natoli: Palermo al tempo degli Spagnoli – Opera inedita, costruita e fedelmente copiata dal manoscritto dell’autore privo di data. È lo studio critico e documentato di due secoli di storia della città di Palermo mirabilmente analizzata da Luigi Natoli con una visione del tutto contemporanea senza trascurar nulla, compresi i particolari, anche i più frivoli.
Argomenti trattati:
La città – Il governo – L’amministrazione – Il popolo – Il Sant’Offizio – Il clero e le confraternite – La giurisdizione e l’arbitrio – Le maestranze – Le rivolte – Le armi e gli armati – Le scuole e i maestri – La stampa – Gli usi e costumi delle famiglie – La vita fastosa – La pietà cittadina – Teatri e feste – I divertimenti cavallereschi e le giostre spettacolose – Banditi, stradari e duelli.
Pagine 283 – Prezzo di copertina € 20,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito ibuonicuginieditori.it (sconto 15%, consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su Amazon Prime e tutti gli store di vendita online. 
In libreria presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133 e punto vendita centro commerciale Conca d'Oro), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi n. 15), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), La Nuova Ipsa (Piazza Leoni 6), La Nuova Bancarella (Via Cavour). 





Luigi Natoli: Santa Rosalia. Tratto da: Almanacco del fanciullo siciliano. Libro sussidiario di cultura regionale e nozioni varie.

Narrano gli scrittori di storie religiose, che alla corte del re di Sicilia, Gugliemo il Buono, c’era un cavaliere, parente del re, di nome Sinibaldo, signore del monte Quisquina; il quale aveva una figlia, giovinetta bellissima, che si chiamava Rosalia, virtuosa e tutta data alla preghiera.
Ora molti la domandavano in isposa, ma essa si rifiutava, perché voleva consacrarsi a Dio; e per sottrarsi alle nozze, fuggì di casa. Pellegrinando, andò a ricoverarsi in certe grotte del monte Quisquina, dove visse, cinta di rozzo saio, nutrendosi di erbe e bevendo acqua fresca con una ciotola. Così passava i giorni in penitenze e in preghiere.
Dal monte Quisquina, a piedi, valicando aspre montagne, venne verso Palermo: arrampicatasi sul monte Pellegrino, vi trovò una grotta, e ne fece la sua abitazione.
Ivi trascorse il resto della vita; ivi morì ignorata: ma poi la fama del suo pellegrinaggio si sparse; e sul monte Pellegrino fu eretta una piccola chiesa in suo onore. Se non che, non si sapeva dove fosse sepolta, per quante ricerche si facessero.
Nel 1624 Palermo fu afflitta da una fiera pestilenza: la gente moriva a centinaia, e non valevano rimedi di medici, nè preghiere e penitenze ad arrestarla. A chi ricorrere?
Quand’ecco un giorno un cacciatore si presenta all’arcivescovo, e gli dice di aver veduto santa Rosalia, che gli aveva indicato il punto preciso dove erano le sue ossa; e lo aveva incaricato di farle togliere e trasportare in Palermo.
E allora vanno sulla montagna; trovano la grotta, scavano, e proprio nel punto indicato trovano le ossa. Era il 15 di luglio. Subito le mettono in un’urna, le portano in processione per tutta la città, e le depositano nel Duomo, dove poi fanno alla Santa un’arca d’argento, che è una bellezza.
La peste indi a poco cessò; santa Rosalia fu dichiarata patrona della città di Palermo; e ogni anno in luglio si celebrano grandi feste, che una volta duravano dall’11 al 15 luglio, poi si restrinsero a tre giorni. Si chiamavano il Festino; e un tempo erano così magnifiche e famose, che da ogni parte accorreva gente in Palermo, per ammirarle.



Luigi Natoli: Almanacco del fanciullo siciliano. Libro sussidiario di cultura regionale e nozioni varie. 
L'opera è la fedele trascrizione del volume originale pubblicato da Industrie Riunite Editoriali siciliane nel 1925 e corredata dalle immagini originali. 
Pagine 210 - Prezzo di copertina € 18,00
Copertina di Niccolò Pizzorno.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (sconto 15%, consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
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Luigi Natoli: Il Festino nella Palermo di fine Settecento. Tratto da: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano.

Corrado intanto gironzolava per tutti quei vicoli a lui noti, guardando con infantile compiacimento la luminaria in onore della “Santuzza”. Centinaia di lampioncini di carta colorata, penduli da festoni di verdi fronde distesi pel largo dei vicoli, un dopo l’altro formavano, visti da lontano, come dei soffitti luminosi. 
Sui muri delle case imbiancate di fresco ignoti pittori avevano dipinto in rosso e turchino delle colonne e dei vasi mostruosi con dei fiori inverosimili; e dei chiodi appaiati infissi lungo il contorno reggevano piccole lampadine di terra cotta, che spandevano intorno con la luce rossastra il sito dell’olio da ardere.
Ogni edicola di santi era illuminata con candele di cera, e ornata di parati di carta; qua e là una tavola era stata trasformata in altare, coperta di un pezzo di stoffa rossa, e di una tovaglia, e su fra candele e mazzi di fiori freschi che tramandavano l’acuto odore della gaggia e del gelsomino, un quadro rappresentante Santa Rosalia, coronata di rose, col rocchetto di pellegrina e il crocifisso e il teschio in mano; ovvero un gruppo di cartapesta raffigurante Santa Rosalia e il “saponaro” vestito da cacciatore, inginocchiato ai piedi della “Santuzza”. 
Qua e là dinanzi le bettole, dinanzi le case, lunghe tavole e banchi, e boccali e bicchieri, e vino scintillante nei bicchieri, sparso sulle tavole, fragrante e spumoso; e piatti nei quali nuotavano nella salsa di pomodoro galletti o chiocciole; e montagne di mandorle, ancora chiuse nel mallo verde; e polpi bolliti, dai lunghi tentacoli bruni; e da ogni parte una folla che mangiava, beveva, cantava, annegava nella baldoria le tristezze della vita e della povertà; dimenticando anche che per quell’ora di gioia aveva portato la roba al Monte di Pietà. 
Ma bisognava onorare la “Santa”. La “Santa” per eccellenza è la gentile e poetica romita del monte Ercta, o Pellegrino; la figlia di Sinibaldo, discendente di Carlo Magno, nel cui nome si confondono i nomi della bellezza e del candore: Rosa et lilia, rose e gigli; la taumaturga che proteggeva la sua città natale dai più tremendi flagelli: fame, peste, terremoto e fuoco.
La stessa luminaria più ricca era nelle strade che quell’anno avrebbe percorso la processione dell’urna argentea contenente le miracolose reliquie della vergine romita. Uscendo sul Cassaro o Toledo, lo spettacolo era veramente maraviglioso, e quale nessuna immaginazione potrebbe raffigurare. Le due strade Toledo e Nuova, erano due torrenti di fuoco, due incendii. Per tutta la loro lunghezza eran fiancheggiate da assi di legno intagliate e dipinte maestrevolmente a forma di colonne con vasi, di pilastri, obelischi, statue; dette con unico nome “piramidi”; sulle quali si innalzavano archi di trionfo; e piramidi e archi tempestati di lampadine che seguivano, commentavano, brillavano il disegno, diffondendo intorno una luce viva e uguale. 
Ai balconi delle case lampioni, candele, lampadari, candelabri; e giù per le strade una folla straordinaria lieta, contenta, ma tranquilla, composta, senza nessuna di quelle clamorose dimostrazioni di gioia che son proprie dei popoli meridionali. Si udivano chiaramente le voci dei venditori ambulanti di semi di zucca e fave tostate, di chiocciole, di acqua e fumetto, biscotti e leccornie. Si aspettava la discesa del “Carro”, il famoso carro trionfale, che era la maraviglia delle maraviglie.
Ed esso si vedeva da lontano, torreggiante sulla strada, tremolante nel suo lento avanzarsi, tutto splendente di lumi e di ori e di fiori. Aveva la forma di una barca, su quattro ruote, tirata da cinquanta mule bardate e montate da palafrenieri vestiti alla spagnuola; sulla nave si ergeva una specie di tempietto di stile corinzio, coronato di nubi, circondato di angeli nudi, e su, in alto, così in alto da oltrepassar quasi i tetti dei palazzi, si librava, come in atto di spiccare il volo pel cielo, il simulacro della vergine romita, con le vesti svolazzanti. Giù nei gradini del tempietto i musici sonavano a perdifiato: a ogni fermata del carro si cantava la frottola, specie di lauda in onore della vergine, che veniva composta ogni anno da un poeta ufficiale.
Per tre giorni di seguito il carro attraversava la città. Saliva nel pomeriggio del primo giorno del Festino, l’11 di luglio, da Porta Felice e si fermava al piano del palazzo reale. Ridiscendeva la sera dopo, tutto illuminato, ed era lo spettacolo più grandioso della festa, dopo il vespro solenne nel Duomo; certo il più attraente e caratteristico. Le altre parti della festa, come le corse dei berberi, lo sparo dei fuochi artificiali, la processione, il trasporto delle “bare” e dei “cilii”, eran sì splendide e magnifiche, ma non avevano quella grandiosità inesprimibile del Carro, e dell’illuminazione del Duomo. Eran tre anni che Corrado non vedeva quelle feste così caratteristiche della sua città; e per quanto i suoi nuovi sentimenti gli facessero rimpiangere con certo dolore il folle sciupìo di tante migliaia di scudi, quando la miseria, l’ignoranza, l’abbrutimento asservivano la popolazione, pure non sapeva frenare le dolci commozioni che quegli spettacoli suscitavano nel suo cuore, col destarvi le memorie della sua fanciullezza e la dolcezza amara dei dolori che avevano annebbiata la sua gioventù...
(Nella foto: modellino del carro descritto da Luigi Natoli, esposto al Museo Pitrè di Palermo) 


Luigi Natoli: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine Settecento.
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1913. 
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