San Leo s’adagiava sulla cresta di Montefeltro,
colle staccato dalle giogaie dell’Appennino, cinto di valli, arduo a salire, e
da una parte tagliato a picco. Sulla vetta più alta, a oriente del borgo, da
cui è separata da un pendìo sparso di macchie e di cespugli, si alza la
fortezza, che dal lato opposto domina la rupe a picco. Da questo lato, che non
ha salita, e dove bisognerebbe aver ali per giungere, la fortezza appare come
un insieme di fabbricati massicci, addossati gli uni sugli altri; ma dalla
parte del borgo, essa si presenta in un aspetto guerresco, con due grandi torri
circolari di qua e di là dalla cortina merlata, e il mastio massiccio in mezzo,
difeso da torricelle quadrangolari.
La fortezza o castello era come l’acropoli del vecchio borgo, che, più a valle, era difeso anche da muraglia e da altri fortilizi a tramontana e a occidente, prime sentinelle in difesa dell’inespugnabile castello.
La prigione dell’ “eretico” era nel mastio; era una cella larga tre passi, o poco più, con la volta alta una statura d’uomo e mezza; e una finestretta a quattro palmi dal suolo. Il prigioniero poteva quindi affacciarvisi comodamente e guardare lo spazio libero ed ampio. L’occhio scendeva giù fra le macchie, errava sui tetti e per le strade del borgo sottostante, si fermava a guardare il duomo e l’alta torre; poi scorreva oltre, guardava i due fortilizi, dei quali sapeva già il nome: il Palazzetto e il Casino; e vedeva indi come un taglio, come una grande fenditura, che isolava il monte. Indovinava che in fondo vi correva il fiume: più oltre ne vedeva fra poggi e boscaglie luccicare l’argento delle acque.
E più lontano ancora poggi e colli si succedevano come in uno scenario, degradando in tinte più azzurrine e più sfumate; e sull’orizzonte si disegnava di qua la Carpegna, di là, più in fondo la linea degli Appennini.
L’occhio non poteva scorgere che meno della metà dell’orizzonte; ma quanti desideri tormentosi! Fra quei colli, sopra un monte era S. Marino, la piccola repubblica; più oltre, a occidente, lo stato di Toscana; alle sue spalle l’Adriatico. Erano la libertà e la salvezza!...
La fortezza o castello era come l’acropoli del vecchio borgo, che, più a valle, era difeso anche da muraglia e da altri fortilizi a tramontana e a occidente, prime sentinelle in difesa dell’inespugnabile castello.
La prigione dell’ “eretico” era nel mastio; era una cella larga tre passi, o poco più, con la volta alta una statura d’uomo e mezza; e una finestretta a quattro palmi dal suolo. Il prigioniero poteva quindi affacciarvisi comodamente e guardare lo spazio libero ed ampio. L’occhio scendeva giù fra le macchie, errava sui tetti e per le strade del borgo sottostante, si fermava a guardare il duomo e l’alta torre; poi scorreva oltre, guardava i due fortilizi, dei quali sapeva già il nome: il Palazzetto e il Casino; e vedeva indi come un taglio, come una grande fenditura, che isolava il monte. Indovinava che in fondo vi correva il fiume: più oltre ne vedeva fra poggi e boscaglie luccicare l’argento delle acque.
E più lontano ancora poggi e colli si succedevano come in uno scenario, degradando in tinte più azzurrine e più sfumate; e sull’orizzonte si disegnava di qua la Carpegna, di là, più in fondo la linea degli Appennini.
L’occhio non poteva scorgere che meno della metà dell’orizzonte; ma quanti desideri tormentosi! Fra quei colli, sopra un monte era S. Marino, la piccola repubblica; più oltre, a occidente, lo stato di Toscana; alle sue spalle l’Adriatico. Erano la libertà e la salvezza!...
Il prigioniero era un uomo
di una cinquantina d’anni, dai lineamenti energici, ma d’aspetto logoro ed
emaciato; la fronte ampia e piana, il naso leggermente curvo all’apice e largo
alla base, gli occhi neri, profondi, con un lampeggiare strano fra le ciglia
nere e spesse; la mascella quadrata, parevano gli avanzi di una bellezza
maschia e dominatrice; simili ai ruderi di un antico nobile edificio, rovinato
dalle ingiurie degli uomini e del tempo.
A giudicarne dallo spazio occupato nel letto,
doveva essere di statura piuttosto bassa; ma aveva l’ossatura delle spalle
larga e il petto ampio sebbene scarno. Nell’insieme rivelava una costituzione
forte e vigorosa, resistente ancora ai patimenti che ne consumavano la carne e
ne scoloravano il sangue.
Luigi Natoli: Cagliostro e le sue avventure. Romanzo storico
L'opera è la fedele ricostruzione del romanzo originale pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1914.
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