giovedì 18 agosto 2022

Luigi Natoli: Era la vigilia dell'Assunta del 1795... Tratto da: L'abate Meli. Romanzo storico siciliano.

Meli si alzò senza dire una parola, prese il cappello e il bastone e mormorando un “sia fatta la volontà di Dio” disse al giovane:
- Andiamo!
Presero una portantina e si avviarono: Meli dentro e il giovane a piedi, fuori; l’ombra dei platani che fiancheggiavano la strada che da Porta Nuova menava ai Cappuccini li difendeva dai raggi solari. Quegli alberi, piantati da M. A. Colonna di Paliano, percorrevano la via sino al convento. Ora non restano che pochi avanzi presso Porta Nuova; non c’erano allora tutte le cose che ingombrano i due marciapiedi ed erano lieti delle ombre che rinfrescavano i cittadini. Di qua e di là lungo il corso, si aprivano cinque emicicli, con in mezzo fontane di pietra grigia. Di contro all’imboccatura della strada che conduceva ai Cappuccini (ora si chiama Via Pindemonte) c’era un’altra fontana più monumentale, mista di marmi bianchi e pietra grigia, che s’alzava maestosa, e dava acqua ai vicini. Ora fu distrutta, per dar luogo alla Via Cuba e non si sa che se ne sia fatto, così delle altre fontane nessuna più ne esiste, per ingordigia degli abitanti o per altre ragioni, salvo una a fianco dell’Educandato Maria Adelaide, chiusa da un cancello.
Era il pomeriggio. La via era affollata di gente, perché era la vigilia dell’Assunta, festa solenne dei Cappuccini. Gente che andava e gente che veniva: un viavai continuo: portantine di tutti i colori e carrozze padronali, carretti, pedoni; questi in maggior numero, uomini in giamberga e in giacca, donne col manto chiuso nel naso, lasciando liberi gli occhi neri e fulgidi; ragazzi che empivano la strada dei loro cicalecci; venditori di acqua, che la portavano sul fianco, coi bicchieri infilati in un ordegno di ferro; o di semi di zucca, o di ceci abbrustoliti: tutta gente che vociava, nel lungo tratto di strada.
Allo svolto della strada che conduceva ai Cappuccini, la folla era più fitta. Delle baracche cucinavano, delle altre facevano focaccie, qui una tenda vendeva dolciumi, lì una tavoletta esponeva Madonne di argilla, coricate con le mani stese ed aperte, vestite di bianco col manto azzurro; grandi e piccole; più in qua l’“incatena corone”, torcendo i fili di ottone intorno ai grani del rosario; e fra tutti, le piccole bare, con madonne di cera, illuminate, portate da quattro ragazzi che gridavano con le vocine squillanti: “viva Maria”. Ma su tutto ondeggiava un odore di fritto, tra il fumo delle padelle, nelle cucine improvvisate.
Fra questa folla varia e multiforme andava il Meli discorrendo col giovane che gli camminava a fianco.
- Al Convento non vi ho visto mai. Come vi chiamate?
- Mi chiamo Gerlando, ai suoi comandi. Gerlando Disa... Sono venuto da poco; il frate ortolano è mio parente...
- E siete intimo di fra Francesco?
- Sono il suo buon servitore, perché mi ha beneficato, quando ero, per così dire, nell’altro mondo!
- Come sarebbe a dire?
- Dunque voscenza non m’ha guardato?
- Che cosa volete che vi guardi?
- E mi guardi ora...
E il giovane si scoprì, voltandosi verso di lui e mostrando la testa. Aveva una cicatrice, piuttosto lunga, che gli correva dalla fronte e gli partiva i capelli, come una scrimatura.
- Questa – disse – me la fece un colpo di spada, una sera; e debbo a Fra Francesco se tornai dalla morte alla vita. Fu un signore. Credeva che volessi dare una lettera ad una delle sue donne e mi conciò a questo modo. Per poco non sono morto.
- Ma dimmi un po’, – disse sorridendo Meli, – tu non destasti sospetto? Non ti si era veduto con qualche signora?
- Oh! ma che va dicendo voscenza! Io non faccio il mezzano. Chi sa poi per chi m’ha preso quel signore.
Chiacchierando così, e scansando il continuo andirivieni, erano giunti al convento. La folla era più fitta e bisognava fermarsi. Dalla croce di legno, alta sopra uno zoccolo, fino a quella specie di portico pieno zeppo di... miracoli o “ex voto”, dipinti da pittori da strapazzo, la gente si ammassava. La chiesa era piccola e non c’entrava tutta; gran parte sostava. Un frate raccoglieva l’elemosina.
Eppure in quel viavai di gente allegra, in mezzo a quel cicaleccio, a quelle grida continue, nel convento un uomo moriva. E aspettava con l'ansia di chi teme di non fare in tempo.
Il Meli attraversò il portico dinanzi la chiesetta, piegò la testa, vedendo nella navata l’immagine della Madonna, coricata fra le candele accese; e salì le scale del convento.
Era quasi deserto. La festa chiamava i frati nella chiesa e nella cucina: solo qualche vecchio con la barba bianca e lunga errava nei corridoi.


Luigi Natoli: L'Abate Meli. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine settecento. L'opera è la fedele ricostruzione del romanzo originale, pubblicato a puntate sul Giornale di Sicilia dal 19 settembre 1929, e comprende inoltre la trascrizione dell'opera "Giovanni Meli. Studio critico" pubblicato dalla tipografia del giornale "Il tempo" diretta da Pietro Montaina del 1883 e la raccolta di poesie di Giovanni Meli tratte da Musa Siciliana pubblicato dalla casa editrice Caddeo nel 1922; tutte le poesie sono corredate di traduzione in italiano a fronte a cura del prof. Francesco Zaffuto.
Pagine 727 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
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