Da quando era entrato nel forte, ed eran quattro
anni, dopo un processo laborioso, Giammaria era la prima persona con la quale
discorreva; per quattro anni era stato relegato nel silenzio della segreta,
guardato con disprezzo e terrore; oggetto di scherni e di crudeltà, contro le
quali non poteva reagire. Nessuno doveva parlare con lui; neppure il barbiere,
che una volta al mese radeva i prigionieri, non già per igiene o per decenza,
ma perché la barba era segno di giacobinismo.
Aveva dovuto infingere una rassegnazione che non
sentiva; ma era forse effetto della debolezza fisica, questa che gli pareva
forza di rassegnazione.
La condanna era crudele; oltre alla segregazione
in quella piccola, fetida, umida segreta, senza altro mobile che un banco di
pietra sul quale era disteso uno schifoso pagliericcio; era obbligatorio il
digiuno rigoroso per tre giorni della settimana: pane e acqua negli altri, una
minestra di legumi nauseabonda le domeniche. La sua salute ne aveva sofferto; i
suoi muscoli, la sua carne se ne erano logorati.
Egli non poteva sorreggersi con la speranza di una
liberazione prossima o lontana che fosse.
La prigione detta del Pozzetto era la peggiore di tutti: si trovava nella torricella del mastio, a occidente; alta dal suolo circa sessantaquattro braccia, illuminata da un finestrino con triplice inferriata, aperto a meno di tre palmi dal pavimento nudo e limaccioso, nella parete spessa otto palmi. Angusta, umida, semioscura; non aveva porta: vi si entrava dall’alto, per una botola che si apriva esternamente, donde, occorrendo, si calava una scala. Il prigioniero vi era stato calato con una corda; forse per questo, la prigione aveva nome Pozzetto: nessuna fibra, per forte che fosse, avrebbe potuto durare a lungo in quella sepoltura, che la pietà religiosa del sant’uffizio e del papa dava ai prigionieri. Non v’era che un mucchio di paglia per giaciglio, gittata in un angolo, sotto un grosso anello di ferro infisso nella parete per incatenarvi il prigioniero.
L’arciprete
don Marini e il suo coadiutore, il padre don Filippo Scalini, per quei
quindici giorni, a vicenda avevano tentato ogni via per ammollire il cuore di
quell'uomo, che, per loro, era in preda del demonio. Egli pareva si fosse
chiuso in un mutismo, che nè esortazioni, nè preghiere, nè minacce e neppur
torture eran valse a vincere. Gli avevan punto le carni, gli avevano storto le
braccia per vedere se conservava la sua sensibilità e se quel mutismo fosse un
effetto del colpo apopletico o di pravità d’animo; egli si era riscosso, aveva
mandato un urlo che non aveva nulla di umano, ed era caduto nel suo mutismo.
Soltanto i suoi occhi avevano conservato nella profondità dello sguardo, la
loro eloquenza; e spesso alle insistenti domande degli ostinati padri, esso
si era illuminato di una superiorità sdegnosa, o di una penetrazione così
profonda, che quelli se ne erano sentiti imbarazzare...
Luigi Natoli: Cagliostro e le sue avventure. Romanzo storico
L'opera è la fedele ricostruzione del romanzo originale pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1914.
Pagine 884 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su Amazon Prime, Ibs, La Feltrinelli.it e tutti gli store online.
Disponibile presso La Feltrinelli libri e musica e nelle migliori librerie di Palermo.
Nessun commento:
Posta un commento