martedì 13 aprile 2021

Un copione per i Pupi. Natoli a tutto campo. Articolo del prof. Salvatore Ferlita su La Repubblica

L’autore dei “Beati Paoli” è un ambasciatore siciliano che adesso sconfina in Bulgaria con la traduzione de L’abate Lanza” scritto in dialetto


Se Luigi Natoli oggi fosse vivo e vegeto (ragionando per assurdo, con buona pace degli storici) non ci penserebbe due volte a riconvertirsi in scrittore di sceneggiature e storie per le serie tv. Sarebbe di certo concupito dai boss di Netflix e compagnia bella, e prenderebbe ogni mese un volo per la California al fine di apporre la firma sull’ennesimo contratto di produzione. Esagerazioni a parte, davvero l’autore dei “Beati Paoli” di cui ricorre l’ottantesimo anniversario della morte, con suoi romanzi a puntate è da annoverare tra gli anticipatori della scrittura seriale contemporanea. Oltretutto, per la mole della produzione (che fa venire in mente i nomi di Georges Simenon e di Agatha Christie), per la popolarità di cui godette, per lo slancio fisiologico della sua affabulazione, possiamo considerare Natoli una sorta di Ur-Camilleri, la sua preconizzazione in terra di Sicilia. Assieme a Luigi Pirandello poi, lo scrittore e storiografo palermitano va inserito tra i più illustri ambasciatori della Sicilia nel mondo: è di pochi giorni fa la notizia che “L’abate Lanza”, opera teatrale di Natoli scritta in dialetto, a breve vedrà la luce in bulgaro: è il risultato di una vera e propria, impensabile, vertigine linguistica. 
“L’abate Lanza”, fino a poco tempo fa rimasto inedito, è stato pubblicato di recente da “I Buoni Cugini editori”, la premiata ditta dell’editoria palermitana formata da Ivo Tiberio Ginevra e dalla moglie Anna Squatrito. I quali, giusto sette anni fa, hanno messo su una casa editrice per riportare alla luce le opere condannate ingiustamente all’oblìo. Nel loro catalogo su tutti troneggia  il nome di Natoli, del quale hanno visto la luce più di trenta volumi. 
È in dirittura d’arrivo, sempre per i tipi dei “Buoni Cugini”, una vera chicca: si intitola “Il teatro del popolino. Scritti sull’Opera dei Pupi” di Luigi Natoli e di Giuseppe Pitrè: quest’ultimo, più anziano di qualche anno, utilizzò sempre un tono di reverenza nel fitto epistolario che intrattenne con l’amico e sodale. Al grande medico, scrittore ed etnologo del resto Natoli non di rado si rivolgeva, apostrofandolo il “dottorissimo”, per ottenere credenziali al fine di poter frequentare le biblioteche delle tante città italiane dove insegnò o per chiedere un appoggio per l’approvazione di una delle sue tante grammatiche e successivamente per l’adozione nelle scuole. Il volume in questione allineerà pure un copione scritto da Natoli per l’opera dei pupi, originariamente inserito nel romanzo “Fioravante e Rizzeri” (1936). 
E in cantiere i coniugi editori hanno altri titoli: in preparazione infatti è il volume delle poesie edite e inedite, da tempo difficilmente reperibili. I versi di Natoli, non dimentichiamolo, furono apprezzati, tra gli altri, da Mario Rapisardi e da Giuseppe Pipitone Federico, palati assai fini in materia poetica. Ne sta dunque venendo fuori davvero un’operazione ciclopica, che offre la ghiotta opportunità di riconsiderare finalmente la figura di questo autore prolifico, troppo sbrigativamente liquidato come quello dei “Beati Paoli”. 
Garibaldino già in fasce e mazziniano convinto, Natoli dedicò tutta la sua vita alla scrittura (una specie di mostro che, ingordo, pian piano lo ha fagocitato: fu, infatti, scrittore, giornalista, romanziere, poeta, commediografo, critico letterario e filologo), e all’insegnamento, che praticò in modo erratico, costretto a far presto armi e bagagli e a spostarsi da una sede all’altra perché assai malvisto dal fascismo: fu pure trasferito a Sassari passando per Pisa, Napoli, percorrendo le stazioni di una sorta di via crucis. Si mostrò ben presto particolarmente eclettico, firmando saggi critici, antologie poetiche, scritti di storia dell’arte, opere storiografiche, ma soprattutto racconti (se ne contano più di trecento) e una trentina di romanzi, quasi tutti pubblicati a puntate sui quotidiani, in particolare sul “Giornale di Sicilia”. 

Natoli appartiene all’illustre schiera degli autori di feuilleton: manipolo di alto lignaggio, se si pensa che in esso militarono, prima di lui, scrittori del calibro di Balzac, Dickens, Dumas. La cadenza settimanale, la pubblicazione su una testata giornalistica agevolavano il processo di fidelizzazione di un numero sempre più vasto di lettori (che nelle portinerie umide e buie di Palermo, si racconta, computavano a voce alta l’appendice di avventure fresche d’inchiostro per metterle alla portata di tutti): per Natoli era legittimo scrivere per tutti e non per una minoranza. Si avviò così un processo di inarrestabile consacrazione: nessuno era disposto a perdere una puntata delle sue storie, le più varie, le più romanzesche, seppur proiettate su un fondale ben ricostruito: “Era uno storico con le carte in regola” per Leonardo Sciascia, ma anche “uno scrittore efficace, un narratore tecnicamente accorto. Si può dire senz’altro uno scrittore buono, se dopo tanti anni e dopo aver “bevuto in tante altre cantine”, prendendo in mano un suo libro e cominciando a leggerlo, ecco che ci troviamo costretti a finirlo. Da “Calvello il bastardo” a “La vecchia dell’aceto”, da Cagliostro e le sue avventure” a “La baronessa di Carini”, che a maggio uscirà in una nuova edizione illustrata per i tipi della casa editrice catanese Lunaria. Per non dire di altri romanzi meno noti, come “Gli ultimi saraceni”, “Alla guerra!”, “Squarcialupo”, “Il capitan Terrore”, “Gli Schiavi” che Natoli considerava l’opera più importante. Ma sappiamo invece che la sua vocazione letteraria fu consacrata dalla pubblicazione dei “Beati Paoli”, di certo tra le storie più riuscite che gli si devono, suggestive e insieme misteriose, per via anche del fascino antico della leggenda popolare da cui l’autore prese le mosse. Le imprese dell’oscura società segreta che nella Palermo di fine Seicento prendeva le difese degli oppressi alla lunga ha oscurato una produzione molto vasta e soprattutto variegata, rispetto alla quale però, alla fine, si ha la netta sensazione di avere sotto gli occhi un unico, sorprendente, smisurato testo, letto qua e là: ne consegue che i titoli sovente si confondono un po’ tutti, ma non c’è un solo libro che possa essere definito un vero capolavoro.


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