mercoledì 10 ottobre 2018

Luigi Natoli: Un matrimonio al Castello di Calattubo. Tratto da: Squarcialupo.

Calattubo, castello e borgo, era in festa: i terrazzani avevano saccheggiato il bosco per ornare di festoni i muri del castello e delle case; erigere archi trionfali, parare la chiesetta.
Da tutte le finestre del castello pendevano tappeti, coperte,  drappi di vivaci colori; da quelle dei miseri tuguri di pietre e fango, poveri cenci, che nella loro stessa povertà rendevano gaio il villaggio, e manifestavano la gioia di quelle anime semplici e selvagge per la festa nuziale. Sul mastio del castello, il signor Giovan Paolo aveva fatto inalberare il suo bianco stendardo, con l’arme in mezzo: tre sbarre d’oro in campo azzurro, e un leone camminante sulla prima sbarra. Raramente lo stendardo aveva ondeggiato sull’alta torre, per cui i terrazzani guardavano con maraviglia e piacere; e il bianco del drappo e l’oro dello scudo e della lancia, in quello sventolio al sole, nel limpido azzurro del cielo di maggio pareva sfolgorassero anch’essi di gioia.
 Era andato lui in persona ad Alcamo, per comperare gioielli nuovi, e invitare i personaggi più cospicui: i giurati, il capitano, i principali signori perché venissero ad assistere alla scrittura dei capitoli, alla stima del corredo e allo scambio degli anelli, che era la prima funzione delle nozze, e che si diceva giurare, iurari, perché i due sposi si davano solennemente promessa. E questo bastava per legarli l’uno all’altro.
Il giorno destinato, cominciarono ad arrivare gli invitati, a cavallo, cavalieri e dame, in ricche vesti, con gran seguito di paggi e palafrenieri e serventi: e ogni arrivo era salutato dalla folla dei villani, con grandi grida di gioia. Il signor Giovan Paolo li accoglieva con soddisfazione: i suoi occhi, il suo volto, i suoi gesti rivelavano la gioia che inondava il cuore, e che invano cercava di dissimulare sotto le cerimonie d’uso.
Il corredo era esposto in una sala al pianterreno. Era nella maggior parte quello portato in dote dalla buona memoria della signora Laura, la madre di Aldonza; che il signor Giovan Paolo aveva conservato religiosamente: ogni capo del corredo era stato valutato e registrato dal notaro venuto da Alcamo. C’erano quattro materassi di lana, alla siracusana, col traversino, di bella stoffa damascata; lenzuoli a tre teli e a due teli, alcuni di tela tessuta nei telai domestici, altri di tela d’Olanda, o, come scrivevano i notari, tela de landa, con frange di seta, o con nodi all’imperatrice, o con frange d’oro e seta bianca e nera alla rimboccatura; guanciali di tela d’Olanda, con nastrini di seta o di damaschino verde con ornamenti di bottoni e intrecciature di filo di seta a tre capi; coperte a rete, o damascate, o lavorate coi fuselli. Poi v’era il padiglione del letto, di seta, e la lettiera di ferro battuto; e l’icona rappresentante la Vergine col bambino fra sant’Agata e santa Cristina protettrici di Palermo. Venivano dopo le casse di noce intagliata, coperte dei bancali, specie di tappezzeria che veniva di Francia o di Catalogna; l’inginocchiatoio, due seggioloni di cuoio, imbellettati con chiodi di bronzo dorato; e poi le vesti di seta, di velluto, di ciambellotto, di damasco; veli, cuffie di tela d’oro e d’argento, berrettelli di velluto, casòle, ossia cordoncini e catenelle da intrecciare fra’ capelli; collane, coralli e pendagli con perle e smeraldi; anelli, vasetti d’argento per le pomate, anforette per gli odori, un piccolo lampadare; e poi confettiere, cioè vassoi per servire confetture, e vasellame di bronzo, e perfino una sella da donna, di quelle che si dicevano sambuodu, imbottite e ricamate di seta e di filo d’oro. Tutto ciò oltre la biancheria personale che aveva capi ricchissimi di trine coi fuselli e col filo tirato, che le dame ammiravano non senza invidia.
Era insomma un vero corredo principesco; e le lodi che se ne facevano gonfiavano di gioia il cuore del signor Giovan Paolo.
Venne l’ora dello scambio degli anelli. Nella grande sala del castello era stato posto un tavolino, al quale sedette il notaro. Allora soltanto comparve Aldonza la cui apparizione suscitò un fremito di ammirazione. Essa era adorabilmente bella, in un vestito color roseo che le serrava il busto, e le scendeva in grandi pieghe e con in capo una cuffietta di tela d’oro, trattenuta da fili di perle. L’accompagnava il signor Giovan Paolo, e dietro venivano i due paggetti. Un minuto dopo entrò Tristano, accompagnato da Giovan Luca Squarcialupo. Egli destò la curiosità delle donne, che lo giudicarono un bel giovane. Il notaro lesse i capitoli: i due giovani si scambiarono l’anello, fra gli evviva degli invitati. Aldonza era rossa di pudore e di piacere; il signor Giovan Paolo si sentiva soffocare: aveva gli occhi umidi di lagrime e balbettava parole incoerenti. Tristano era raggiante e non credeva ancora ai suoi occhi. Sorrideva ad Aldonza, e stringeva la mano a Giovan Luca, al quale attribuiva l’aver persuaso il barone, e di dovere la sua felicità. 
Il matrimonio, che era il secondo atto degli sponsali e si diceva ‘nguaggiu, si celebrò nella chiesetta del borgo il domani mattina. Tre colpi di archibugio diedero il segno che la cavalcata nuziale usciva dal castello. Precedevano due arcieri armati per far largo, ai quali seguivano i musici con viole d’amore, guideme, violini, flauti; e cantori che si alternavano; e dietro a essi alcuni paggi; indi la sposa su un cavallo bianco bardato, fra il padre e il castellano di Alcamo... 


Luigi Natoli: Squarcialupo.
Nella versione originale pubblicata a puntate per la prima ed unica volta in appendice al Giornale di Sicilia nel 1924. Raccolto e pubblicato in unico volume ad opera de I Buoni Cugini editori. 
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