martedì 2 febbraio 2016

Gli inediti di Luigi Natoli: il "caso" di Sciacca.

Apparsa per la prima e unica volta nel 1892 in un piccolo volume intitolato Storie e Leggende di Luigi Natoli pubblicato dalla casa editrice Pedone Lauriel, la lunga storia de "Il caso di Sciacca" viene inserita oggi dopo 123 anni nel volume "La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue". 
Siamo nella Sicilia del XVI secolo e il "caso" - dove con questa parola l'autore specifica che "nelle cronache e nella dizione di quei tempi adoperano i nostri scrittori nel significato di grande e straordinario avvenimento con uccisione e morte di persone" - vede protegoniste le nobili famiglie dei Perollo e dei De Luna. Ma diviene poi una vera e propria lotta civile che insanguinò Sciacca e che ha come teatro l'antico castello del luogo.
Anche qui la morte di una bella e innocente baronessa la cui esistenza è storica, la baronessa di Mongellino: "Tra i cadaveri orrendamente mutilati, giaceva bianca e bella la baronessa di Mongellino; e anche nella morte ella pareva volesse difendere con le braccia sanguinose il cadavere del marito".
Proponiamo il primo capitolo della storia: 

Il riscatto del barone
 
Curiosa e trepidante traeva la folla sulla marina di Sciacca; tra le onde serene ormeggiavano sei galere ottomane, la capitana delle quali avea innalzato la bandiera di tregua. Che è? Che non è? Malgrado il segno pacifico nessuno era interamente tranquillo, chè i colpi di mano improvvisi gli infedeli ne avevano fatti parecchi. Qualcuno correva al vecchio castello normanno e avvertiva il regio Portolano, don Giacomo Perollo barone di Pandolfina, del pericolo sovrastante; ma il barone che era attorniato da una corte splendida come quella di un re, sorrideva e tentennava il capo fingendo maraviglia e spavento. Egli già sapeva tutto.
- Chi sarà mai questo corsaro?
- Magnifico signore, dicono che sia Barbarossa in persona...
- Allora bisogna rendergli onore, perché Caradino Barbarossa è un assai valoroso guerriero!...
I messaggeri restarono attoniti, non sapendo se dovessero sorridere, come sorrideva il magnifico Portolano. Intanto pel lido si spargevano le voci più contraddittorie; chi diceva una cosa, chi un’altra; poi la verità cominciò a farsi strada, quando un ufficiale tornò da parlamento.
Era Sinan bassà, e recava a bordo il barone di Solanto, che egli aveva catturato nelle acque di Trapani.
Sinan bassà! Il terrore dei mari, il corsaro più feroce e più valoroso che fosse ai servizii di Caradino Barbarossa!... Oimè, povero barone! Quel giudeo rinnegato non si contenterebbe di un riscatto qualsiasi; ei vorrebbero tutte le somme introitate dal segreto, per soddisfare l’avarizia del corsaro.
Mentre la folla trascorrea di pensiero in pensiero, si sentì lo scalpitare di alquanti cavalli che venivano al galoppo.
Una voce urlò:
- Largo! largo!...
Tosto la folla, ondeggiando, si divise in due e pel varco capace abbastanza, giunsero al lido quattro o cinque cavalieri.
- È il conte di Luna – cominciarono a bisbigliare – Oh il magnifico signor Sigismondo – Curiosa! Il signor Portolano se ne sta in castello, e lascia che il suo nemico per sfregio venga a riscattare il barone di Solanto! – Vediamo un po’ come andrà a finire.
Il conte Sigismondo di Luna era intanto smontato da cavallo, ed erano smontati con lui i gentiluomini e il suo segreto che recavasi fra le braccia due sacchetti di moneta.
Ma i sacchetti non erano così voluminosi da incutere rispetto; la folla cominciò a sogghignare; qualcuno facetamente pungeva la liberalità del conte di Luna.
- Pover’uomo! Credo che abbia impegnate le gioie della signora contessa!
Il conte era entrato in uno schifo, e faceva remare verso la capitana; era pallido, e fremente. Aveva sentito qualche motteggio, e l’animo suo inasprito da altre ingiurie, pieno di odio ereditario avverso il barone Perollo, tumultuavagli dentro e ruggiva come un mare tempestoso. Pur taceva e sperava; abbandonandosi ai torbidi ricordi del passato, da Artale suo bisavolo ucciso a tradimento da Giovanni Perollo, ad Antonio suo avo, assalito e ferito aspramente da Pietro Perollo; ed a questi ricordi aggiungeva le insolenze della plebe, che abbagliata dallo splendore della corte di Giacomo Perollo, copriva di scherni la solitaria rocca di Caltabellotta; la boria del barone di Pandolfina, dei suoi congiunti, dei suoi cortigiani: e si ripassava tutti i più piccoli fatti, le minuzie più insignificanti, che all’animo suo invelenito apparivano fiere e sanguinose provocazioni.
Intanto lo schifo avea abbordato la capitana di Sinan: don Sigismondo seguito dal segreto montò sul ponte. Sinan stava seduto sopra cuscini di seta, addossati ad alcune casse di polvere, e riparati da una gran tenda rossa, che percossa dal sole, dava a tutte le cose che vi stavan sotto dei riflessi di fiamma.
Il bassà non si mosse, con la scimitarra fra le gambe, i pugni appuntati sulle ginocchia, salutò con un lieve cenno del capo il conte di Luna. Sotto la stessa tenda, accanto a lui, tranquillo all’aspetto, ma con gli occhi lucenti dalla febbre del desiderio, stava il barone di Solanto. Come vide apparire il conte seguito dal segreto, sorrise e una viva gioia gli illuminò il volto: ma Sinan, dato uno sguardo ai due sacchetti, fece una smorfia di disprezzo.
Don Sigismondo se ne accorse, corrugò le ciglia e disse freddamente:
- Ci sono dentro diecimila scudi in oro.
Sinan in verità chiedeva qualche migliaio di meno pel riscatto del barone di Solanto; ma alle parole del conte, alteramente dette, rispose con un sorriso freddo e maligno:
- Reputo che la persona del signor barone valga qualche cosa più che cotesta sommerella.
Il conte non gli rispose; stesa la mano al barone di Solanto, disse:
- Voi mi perdonerete, signor barone, se io non riesco a riscattarvi; ma la colpa non è mia...
Il barone, pallido e rassegnato, gli strinse la mano e lo ringraziò:
- Io ve ne sarò sempre riconoscente.
Don Sigismondo scese dalla capitana; ma quando fu sullo schifo ebbe una voglia grandissima di buttar in mare quel denaro inutile e darsi degli schiaffi.
Sul lido la moltitudine attendevalo, quella moltitudine motteggiatrice che, beffandolo, avevalo veduto salpare pel riscatto, ed ora lo vedeva ritornare solo, come era andato, col suo denaro. Quale figura! Quale vergogna!... E come il barone di Pandolfina avrebbe riso coi suoi amici, coi suoi cortigiani!... Ah! il signor Sigismondo vuol fare il liberale! Va a riscattare i baroni dell’isola!... Vediamo un po’, come avrà fatto a racimolare venti scudi? E tutti avrebbero sghignazzato alle facezie del signor Portolano, tutti!... Era orribile a pensare. Da ogni parte egli si volgeva, trovava bocche sogghignanti, occhi curiosi e beffardi, da ogni parte sorgeva quel mormorio d’irrisione peggiore di qualunque offesa.
Agitato di questi pensieri, pallido per la vergogna pose piede a terra; senza guardar nessuno, sentendosi addosso gli sguardi maligni di tutti, montò a cavallo coi suoi e data un’ultima occhiata al naviglio del corsaro che ammainava il pennone di tregua, spronò.
Ma non s’era dilungato d’un trar di balestra, che un colpo di fucile di fe’ volgere gli occhi. Subito arrestò, e con rabbia e stupore insieme vide un altro battello salpare dal lido e le galee barbaresche, richiamate dallo sparo del fucile, fermarsi improvvisamente. Nel battello stava Giacomo Perollo.
 
 
 
Luigi Natoli
 

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