venerdì 10 maggio 2024

Luigi Natoli e le rivoluzioni in Sicilia (1820): Tre giorni durò la lotta fra il popolo di Palermo e le milizie del re... Tratto da: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro

Tre giorni durò la lotta fra il popolo di Palermo e le milizie del re; e furon tre giorni d’inferno. Bisognava non soltanto respingere gli assalti dei battaglioni ben armati e della cavalleria, ma anche sloggiarli dai forti del Palazzo Reale e dal Castello a mare, muniti di artiglieria. E s’avea da fare coi reggimenti svizzeri che il Borbone teneva a soldo; gente fiera e ostinata, avvezza a vender la vita, ma a farla pagar cara. Ma il popolo si era sollevato con uno di quegli impeti tremendi, dinanzi ai quali le più salde resistenze s’infrangono. Pareva che tanti secoli di servitù, di soprusi, di ingiustizia, di miseria, si fossero ridestati dalla profondità del passato, erompendo, come dalle viscere della terra le lave ardenti; pareva che quelle squadriglie di popolani e borghesi, confusi insieme dal caso, avessero da far delle vendette di tante generazioni offese. 
Capi improvvisati guidavano gli insorti, che si battevan con ardore e con fede nella vittoria; poiché avevano quella oscura interiore sensazione che questa volta non si trattava di una sommossa pel pane o per la cattiva amministrazione del comune, ma di una rivoluzione donde sarebbe uscito un nuovo assetto del regno. Fra Gioacchino Vaglica, a cavallo, con la tonaca succinta, un crocifisso in una mano, un trombone nell’altra, era diventato l’eroe della plebe. Intrepido, infaticabile, si slanciava dove maggiore era il pericolo, e la plebe infiammata dall’esempio e dalla croce di quel rozzo e feroce Pier l’eremita armato, si gittava animosa allo sbaraglio. Tullio era diventato l’eroe delle maestranze. Una prova della sua forza maravigliosa lo aveva ingrandito talmente agli occhi dei conciapelli e dei pescatori, che esse lo avevan acclamato lor capo.
Le maestranze avevano occupato subito i bastioni della cinta, dei quali, per antico diritto, avevan la custodia. Tra essi era importante quello di porta Maqueda, perchè tagliava in due le comunicazioni del Palazzo reale col Castello e col Molo; mentre un altro fortilizio, allungandosi sul braccio dell’antico porto della Cala, ne difendeva l’ingresso insieme col Castello che era dall’altro lato. Ma essendo il Castello in mano della Milizia regia, questo fortilizio detto della Garita, occupato dal popolo batteva ora il Castello co’ suoi tiri. 
Intanto sulla rada si era spiegata in linea di battaglia la flotta napoletana, alcuni vascelli e cannoniere, e tiravano contro i bastioni. Dai bastioni si rispondeva ma i vecchi e arrugginiti cannoni non avevano il tiro lungo. Un pescatore suggerì di portare in batteria un grosso e pesante cannone che era stato chiuso nei magazzini già del bastione del Tuono fin dai tumulti del secolo innanzi. Quattro uomini accorsi non riuscivano a tirarlo su. Tullio allora si fece innanzi: 
- Date a me le corde!
Lo guardarono ironici e canzonatori. Che cosa voleva fare quel giovanottone che aveva l’aria di uno zerbinotto, quando quattro robusti pescatori non bastavano a moverlo? Ma Tullio senza badare ai loro sorrisi beffardi, tolse con uno strattone la corda di mano ai pescatori, e puntando le gambe, tesi i muscoli delle braccia, si trascinò su per la salita il pesante cannone, e andò a collocarlo in batteria. Gli astanti, che s’eran disposti a dargli le baie e a svillaneggiare quel “signorino”, a veder muovere il cannone ammutolirono stupiti, e guardandosi negli occhi confusi e sgomenti: ma quando videro quell’enorme pezzo di bronzo salire la ripida ascesa, ruppero in applausi e in grida frenetiche, e per poco non sollevarono in trionfo sulle loro braccia quel nuovo Sansone. 
Da quel giorno l’ammirazione e il rispetto di quella forza diedero a Tullio tale ascendente su quella gente, che essa lo seguiva dovunque e a qualunque impresa, persuasa che un uomo dotato di quei muscoli e di quei nervi fosse invincibile e capace di compiere le gesta più arrischiate. Altro che paladini di Francia! Orlando, che con un colpo della sua Durlindana aveva tagliato la roccia, potea fargli da scudiero. Così quando Tullio, visto che le artiglierie del bastione non arrivavano ai vascelli, propose di armare delle barche cannoniere ed assalire la flotta, trovò in un baleno barche e cannoni e cuori entusiastici, che non stettero a pensare all’ineguaglianza delle forze e delle armi. E la piccola flottiglia di barche armate, infiltrandosi rapida e leggera tra le cannoniere e i vascelli borbonici, cannoneggiandoli, minacciandoli di incendio, li costrinse a cercar la salvezza nella fuga. 
Dopo tre giorni i regi, battuti da ogni parte, dovettero abbandonar la città. La loro ritirata fu disastrosa: inseguite, assalite, lasciaron per via armi, cavalli e uomini feriti o morti: laceri, scalzi, vinti dalla paura e dalla vergogna quei soldati coi quali il generale Naselli, pentito d’aver favorito il primo movimento popolare, sperava domare la rivolta, si rifugiavano nelle navi. Il generale Naselli era già valorosamente fuggito prima, abbandonando il governo alla Giunta. 
E pericoli ce n’erano. La cacciata delle truppe aveva imbaldanzito il popolo, specialmente la povera plebaglia; e la Giunta, tramutatasi in Governo, e installatasi nell’arcivescovato non aveva l’autorità, e la forza di frenar gli eccessi e mantenere l’ordine nella città armata. Le stesse maestranze che nei passati tumulti avevano esercitato ufficio di polizia, ora parevano invase da uno spirito di ribellione contro i signori. V’era un fermentar d’odio di classe; uno svegliarsi di istinti; un anelare scomposto a vendette. Un migliaio di ladri e di assassini, ai quali gli insorti avevano aperto le prigioni della Vicaria, s’erano mescolati nelle squadre più per compiere vendette e ruberie e trascinarvi gli altri, che per l’indipendenza e la costituzione dell’isola. L’aspetto della città dopo la vittoria era terribile. Qua e là avanzi di barricate; qua e là macchie di sangue, o talvolta qualche cadavere irrigidito in un contorcimento spasmodico. A ogni passo torme di uomini armati, alcuni in maniche di camicia, scalzi, con le gambe nude; le armi più dissimili e più disperate, picche e coltellacci, roncole, spade, schioppi di caccia e fucili d’ordinanza con la baionetta, saettavano funesti bagliori. 


Luigi Natoli: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro. Romanzo storico ambientato nella Palermo del 1820. 
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato in dispense con la casa editrice La Gutemberg nel 1930. 
Copertina e illustrazioni di Niccolò Pizzorno. 
Il volume è disponibile:
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