mercoledì 7 settembre 2022

Luigi Natoli: Don Raimondo Albamonte, duca della Motta, membro della deputazione del Regno. Tratto da: I Beati Paoli.

Il duca della Motta, membro della deputazione del Regno, principalissimo istituto, al quale spettava la esecuzione delle leggi e la difesa dei capitoli o statuti della monarchia, stava nel suo ampio studio, seduto in un seggiolone a bracciuoli, tappezzato di cuoio verde a fiorami d’oro, dinanzi a una grande scrivania i cui quattro piedi, tra un complicato accartocciarsi di fogliame rappresentavano dei grifoni dalle zampe leonine. Fasci di carte, quali chiuse in custodie di cartone foderato di pergamena, quali legati con nastrini verdi, stavano ammonticchiati di qua e di là, lasciando appena libero lo spazio a un vassoio, sul quale troneggiava un calamaio di bronzo. Altre carte, un po’ più ordinatamente, giacevano sopra un altro tavolino, posto presso il finestrone. Intorno alle pareti si elevavano grandi scaffali di legno intagliato, pieni di libri grandi e piccoli rilegati in pergamena o in cuoio; quali col titolo scritto per lungo in caratteri neri gotici, quali in caratteri d’oro. Sopra gli scaffali qualche mezzo busto, riproduzione di antichi marmi, qualche globo ingiallito; e su l’alto delle pareti, vecchie tele annerite, nelle quali lampeggiava qualche tono chiaro di carni color di avorio, o di lini bianchi. Il colore del legno e delle tappezzerie, la severità degli intagli, la luce velata e il silenzio, davano alla sala un senso di austero raccoglimento, come in un tempo. Vi era come l’odore delle alte cose dell’intelligenza; quel non so che di indefinibile che soggioga lo spirito e lo invita a pensare, e gli infonde la febbrile curiosità di sapere.
Don Raimondo Albamonte duca della Motta aveva reputazione di dottrina giuridica, e pareva l’erede di quella grande tradizione di giuristi siciliani che risplendeva dei nomi di Giovanni Naso, del Tiperano, di Luca Barbieri, di Vincenzo Percolla, del Corsetto, e del Muta e del Cutelli, raccoglitori e commendatori del diritto patrio. Chiamato a volta a volta a coprire gli alti uffici della magistratura era stato presidente della Gran Corte Civile e di quella Criminale e ora, da due anni, assunto alla deputazione del regno, per la protezione del vicerè don Carlo Antonio Filippo Spinola e Colonna marchese de Los Valvases, al quale era stato di grande aiuto nei processi dei torbidi del 1708. 
Nei quindici anni trascorsi, il suo volto si era fatto più severo, più pallido, gli occhi più tenebrosi. La pratica dei processi criminali e delle torture aveva accentuato maggiormente la durezza della sua mascella, e immobilizzata la maschera fredda del suo volto impassibile. La rigidità delle sue maniere, la inflessibilità del suo volere, nei rapporti di uffici, verso gli uguali e gli inferiori, gli avevano acquistata una reputazione di integrità, della quale egli si gloriava; pronto per altro a deporla nel gabinetto del vicerè, e, senza parere, a tramutarsi in strumento della volontà regia.
Divenuto duca, per mancanza di eredi diretti del fu suo fratello, e raccolta nelle sue mani una ingente eredità l’aveva accresciuta con due ricchi matrimoni, e mettendo a profitto anche la sua carica, in quanto gli dava modo di gittar le mani sopra qualche patrimonio contestato o di acquistar per poco beni confiscati. Ma sapeva, anche in questi casi, serbare la sua apparenza austera, e nessuno dubitava della sua reputazione, alla quale egli teneva.
Alla vigilia dei grandi avvenimenti che si sarebbero svolti nel regno, egli teneva a conservare quella reputazione, mirando a ben più alto posto. Infatti con tutte le forze, tutti i raggiri della sua ambizione, lavorava per esser nominato presidente del real Patrimonio.
Don Raimondo Albamonte duca del­la Motta era dunque in quei giorni grandemente affaticato, ma quella mat­tina aveva altre ragioni per impensie­rirsi; sulla sua scrivania aveva tro­vato una lettera stranissima della qua­le nessuno seppe dire la provenienza, nè chi l’avesse portata. La lettera non conteneva che alcuni brevi versetti:

“Quid detur tibi, aut quid apponatur tibi ad linguam dolosam?
“Sagittae potentis acutae; cum carbonibus desolatoriis
“Custodiens parvulus Dominus
“Dominus solvit compeditos
“Dominus pupillum suscipiet, et vias peccatoris disperdit.
Ricordati di Emanuele.

La lettura di questo nome gli aveva dato la chiave per spiegarsi le allu­sioni di quei versetti staccati dai salmi e messi insieme, ma gli aveva nel tempo stesso fatto correre un brivi­do nel sangue. Già da qualche tempo, ogni tanto, gli giungeva una lettera misteriosa, con una frase, un motto, una minaccia: naturalmente le attri­buiva allo spirito di vendetta di co­loro che dalle sue sentenze venivano colpiti, e non ne faceva caso; ma quel nome lanciato ora, come una bomba, gli spiegava l’occulta e persistente per­cuzione, e lo sgomentava. C’era qual­cuno che possedeva il suo segreto?


Luigi Natoli: I Beati Paoli. Il grande romanzo storico siciliano considerato il capolavoro dell'autore. 
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