Era morto alle tre del mattino del 26 agosto; e nel
pomeriggio lo mandavano a seppellire. Come eretico e scomunicato, non gli
toccava sepoltura cristiana, tanto meno accompagnamento di prete o lume
acceso. E neppure una bara.
- Bara? – aveva esclamato con fiero sdegno il governatore
Semproni; – un cane di quella specie volete trasportarlo in una bara? Se mai,
ficcatelo in una cesta, in un sacco e andate a buttarlo dove sia!... È anche
troppo, questo.
Giammaria, sebbene anche lui sopraffatto dall’orrore
superstizioso per quella morte fuor del grembo della Chiesa, ebbe nondimeno un
senso di pietà. Pregò i quattro inservienti di adagiare il cadavere su quella
mezza imposta; cosa che essi fecero perchè tornava loro più comodo.
Così vestito come era, e, per dileggio, come aveva ordinato
il governatore, con la barba posticcia in volto, lo portavan dunque a
seppellire fuori del castello, fuori della città, sul pendio a occidente, fra
le due torri di vedetta che sorgevano quasi sul ciglio della collina.
Non un cencio lo copriva. Era uso portare i cadaveri
scoperti; ma quello del prigioniero faceva orrore.
La gente, al passaggio del triste corteo, si allontanava con
un senso di terrore o di ribrezzo. Qualcuno si segnava come per cacciare il
demonio: qualcuno più audace, per curiosità, si pose a seguire i seppellitori.
Il caldo era grande, per essere la strada saettata dal sole;
e il cammino faticoso, per essere in pendìo, fra le macchie, sassoso, e con un
peso indosso. I seppellitori sudavano.
Giù, presso una delle torri, v’era una osteria, che prendeva
nome da un pozzetto lì accanto. I seppellitori si diedero la voce; deposero la
mezza imposta col morto sul parapetto del pozzo, ed entrarono nell'osteria a
bere, celiando.
I curiosi si fermarono a guardare il cadavere di quel
prigioniero che era stato oggetto di terrore, e sul cui volto giallo, disfatto,
mostruoso con quella barba posticcia, ronzavano e vi posavano le mosche:
guardavano con una vaga paura, ma soprattutto con curiosità, e con un senso di
stupore, non vedendo nulla di straordinario e di terribile in quella
miserabile parvenza d’uomo.
I seppellitori, ristoratisi, uscirono, e risollevarono il
morto su le spalle, con moto uniforme, ripresero il cammino.
Dovevan seppellirlo sul ciglione, fra le due torri, che si
chiamavano il Palazzetto e il Casino, a eguale distanza dall’una e dall’altra.
Il punto preciso era stato già segnato.
Ivi giunti, posta per terra l’imposta, due portatori, con
zappe e vanghe che avevan portato, scavarono una fossa non molto profonda; indi
sollevata la mezza imposta pei quattro angoli, e piantatisi alle estremità
della fossa, ve la calarono giù.
Uno dei seppellitori prese un sasso e l’adagiò come un
guanciale sotto il capo del prigioniero; e gli distese sul volto un vecchio
fazzoletto.
Queste le ultime pie onoranze: poi le vanghe buttarono terra
e terra e copersero il corpo, e colmarono la fossa.
Tutti e quattro calcarono coi piè quella terra perché
diventasse più compatta; poi se ne andarono zufolando, e dietro a loro i pochi
curiosi che li avevano seguiti.
Quello stesso giorno con un corriere straordinario al legato
pontificio d’Urbino e al cardinal vicario in Roma monsignor Francesco Saverio
Zelada, fu dato annuncio della morte del prigioniero.
Giammaria domandò il favore di essere scelto per andare a
Roma; ma il governatore Semproni, per un capriccio, si oppose. Il giovane
guardaciurma se ne dolse vivamente, e sembrando il suo, atto di ribellione, ne
ebbe la prigionia. Fu peggio. Gli parve che il governatore gli impedisse di far
fortuna: gli parve che l’odio che aveva perseguitato il prigioniero, perché
voleva arricchire i poveri, ora perseguitasse lui che era sul punto di
arricchire: e il suo animo si rivoltò.
Non avendo potuto ottenere l’incarico di andare a Roma, né
potendo ottenere una licenza, appena uscito di prigione, Giammaria, col
pretesto di far una passeggiata, uscì da San Leo, discese giù nella valle, e a
piedi, col manoscritto del prigioniero legato al cinto, prese la strada di
Roma.
Luigi Natoli: Cagliostro e le sue avventure – Romanzo storico
siciliano ambientato nel 1700. È la storia di Giuseppe Balsamo, alias Conte di
Cagliostro, narrata dal protagonista come la lettura di un Diario.
L’opera,
in una edizione totalmente restaurata dal titolo all’indice, è costruita e
trascritta dal romanzo originale pubblicato a puntate in appendice al Giornale
di Sicilia nel 1914.
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