Quel giorno erano le none del 651 di Roma
(5 febbraio 103 a.C.); e Cecilio, ricevuti gli auguri della famiglia e degli
schiavi della casa, con preghiere ai Lari e doni, preparava un gran banchetto,
dato a ventisei fra ricchi cavalieri romani e proprietari siciliani ai quali
voleva mostrare il nuovo triclinio che aveva fatto costruire. Costruire non è proprio; chè egli lo aveva solo rivestito di
marmi: gialli, rossi e verdi, e ornare di pitture e di statue che erano una
vera bellezza. Inoltre l’aveva arricchito di tre tavole di marmo nero con
intarsi di avorio, con letti di bronzo dorato, coperti di materassi e di drappi
ricchi, che destavano meraviglia.
Prometteva anche una sorpresa.
I ventisei invitati giunsero un quarto
d’ora prima dell’ora assegnata da Caio Cecilio nei suoi inviti, che era l’ora
sesta, corrispondente alle nostre dodici, ora fissata per il pranzo. Non
v’erano donne: chè erano rimaste nel gineceo; schiave sì, ed erano le flautiste
e danzatrici, che a suo tempo entrarono in sala coi giocolieri, i mimi e gli
atleti.
Il cuoco fece prodigi, sfoggiò una fantasia
straordinaria nell’ideare le varie tavole, ossia portate, e una abilità non
meno straordinaria nel cucinare vivande complicatissime. Oltre agli antipasti,
fra i quali v’erano delle uova di pasta, in cui si trovavano dei tordi
lardellati con rosso d’uovo, servì un maialetto intero, che pareva ancor vivo,
roseo con le setole bianche; sparato il quale, come se avessero voluto
macellarlo lì per lì sulla tavola, ne erano uscite dal ventre salsicce e
mortadelle.
I commensali applaudirono. I Sicilioti
esclamarono:
- Tu hai certo un maestro in cucina siciliota,
perché non ci sono che essi capaci di fare queste pietanze!
- Hai detto bene. Il mio maestro di cucina
è di Siracusa; ed è il primo cuoco di Sicilia. Io spendo molto per i miei
pasti: vi basti sapere che egli ha ai suoi ordini un esercito di servi, dal
fornaio al dulciario, che gli ubbidiscono in tutto.
Intanto lo struttore (18) serviva le
portate, secondo la scelta dei commensali; e i dapiferi (19) somministravano da
bere; le flautiste sonavano e le danzatrici ballavano voluttuosamente.
Or in quel mese, secondo l’usanza remota
nelle città di origine greca, e l’usanza si era propagata anche in quelle
sicule, cadevano le antiche feste di Coe, un ramo forse o una derivazione delle
Tesmoforie, che si celebravano in onore di Demetra (20). Le Coe onoravano
Dioniso con un gran banchetto popolare, nel quale ad ogni convitato si dava una
misura colma di vino; e aveva un premio chi la vuotava per primo. La festa
aveva perduto il suo primo carattere religioso, e si era trascinata come usanza
popolare. Dopo la conquista romana non si era ridotta che a banchetti privati,
qua e là. Caio Cecilio Pulcro, per dare uno spettacolo ameno ai suoi ospiti,
aveva pensato di adattarla alla sua festa domestica; non però offrendo un
banchetto al popolo, sibbene ai suoi servi, tra i quali doveva aver luogo la
gara. Aveva per questa fatto preparare delle tazze ampie; e si prometteva di
ridere, per una sorpresa che si riserbava di fare ai servi ed ai suoi
commensali.
La tavola dei servi, lunga e improvvisata
con assi, era stata preparata dinanzi all’ergastolo. Questo sorgeva in fondo ad
un orto, all’estremità di un viale; era un vasto edificio, poco elevato, con
scarse e piccole finestre munite di sbarre, con una porta massiccia, coperta di
una lamiera di bronzo. Dinanzi ad esso si stendeva un largo spazio vuoto. Dalla
parte opposta all’altra estremità del viale, sorgeva un altro edificio, assai
più bello, con un piccolo portico, i muri rivestiti di stucco e dipinti, del
quale si riconosceva subito l’ufficio: era il bagno; Caio Cecilio Pulcro vi
aveva trovato una polla d’acqua e l’aveva utilizzata, facendo costruire le sue
terme, in proporzioni ridotte, ma con aula, vasca natatoria, frigidario,
calidario, spogliatoio; insomma tutti i comodi. Tanto per andare all’ergastolo quanto
per andare al bagno, bisognava percorrere un largo viale, fiancheggiato di
cipressi e di siepi di rose, che tagliava in due l’orto, e finiva su
quell’altro viale, ai cui estremi sorgevano i due edifici, formando un
gigantesco T. Il punto dove il viale maggiore si inseriva nel minore, si
allargava in una esedra, con un sedile per tutta la sua curva, e sulla
spalliera del sedile, come sopra uno stereobate, un colonnato, a una sola fila,
che offriva una bella vista a chi dalla casa guardava l’orto o percorreva il
grande viale.
Levate le mense, Caio Cecilio Pulcro invitò
i suoi amici a seguirlo nell’orto. Immaginando che ivi avrebbe trovato la
promessa sorpresa, i commensali si rovesciarono con lieto tumulto nel largo
viale; erano tutti avvinazzati, qualcuno barcollava e si appoggiava al compagno
non meno traballante; Caio Cecilio camminava reggendosi con le mani sulle
spalle di due servi. Quando giunsero dinanzi alla tavola degli schiavi, questi
si levarono in piedi gridanto:
- Vita lunga e felice a Caio
Cecilio Pulcro! Gli dei ti colmino di favori, Caio Cecilio Pulcro!...Luigi Natoli: Gli schiavi. Romanzo storico siciliano ambientato al tempo della dominazione romana e delle guerre servili.
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