Nel lungo duello con Cartagine, durato
circa un secolo, Roma, insignoritasi dell’isola, se n’era fatta una base per
tenere a freno i popoli dell’Africa. La folla dei Romani e degli Italici vi si
era accampata come un popolo dentro un popolo, del quale sentiva la superiorità
nel vivere civile. Altrove Roma, dove assoggettava popoli barbari o di civiltà
inferiore, colonizzava, trasformava, latinizzava; ma in Sicilia, dove trovava
Siracusa, Acroganto, Catana, Centuripe, Tauromenio e altre città ricche,
splendide, altamente progredite; dove, fiera e rozza com’era, aveva tutto da
imparare, attese ad abbassare il livello dei cittadini. E li spogliò. I Siciliani
ricchi si dettero ad imitare i nuovi padroni. Considerata come ager publicus, proprietà dello Stato, i
conquistatori si diedero ad accrescere le loro terre con la frode e con i
ladroneggi, in una gara di rapacità e di invidie. Ma la coltivazione richiedeva
un gran numero di braccia; quelle dei Siciliani richiedeva molta spesa; quelle
degli schiavi costava assai meno. E Roma inviò in Sicilia grandissimo numero di
prigionieri di guerra, altre migliaia ne fornivano i pirati, che facevano
continue scorrerie nelle coste dell’Asia e dell’Africa, e anche in quelle della
Sardegna e della Sicilia, rapivano i giovanetti e le fanciulle e andavano a
venderli a Delo, grande mercato umano. In Sicilia se ne faceva anche
allevamento, facendo accoppiare gli schiavi, poiché era legge che i figli
procreati dagli schiavi fossero proprietà del padrone.
Così la Sicilia era popolata da pochi ricchi,
Romani i più, e da molti poveri, che erano Siciliani, e da schiavi non
siciliani quando venne al mondo Caio Cecilio. Cresciuto nella ricchezza,
l’aveva aumentata. Non era stato indegno del suo avolo, di cui aveva in più la
superbia e la crudeltà. In una delle sue infrequenti gite a Roma, aveva
contratto matrimonio con una giovane sabina, Tazia Flammea, e ne aveva avuti un
maschio, Manlio Cecilio, che ora toccava i vent’anni; e una femmina, Cecilia,
che ne aveva sedici.
Oltre la villa dell’Atichio, dove
trascorreva si può dire tutto l’anno, possedeva una bella casa a Lilibeo, ma vi
passava, e non sempre, due mesi: dicembre e gennaio. Vi giungeva trasportato in
lettiga dai servi cappadociani, e seguìto da una scorta armata per la poca
sicurezza delle strade, infestate da ladroni, quasi sempre impuniti. Erano
infatti schiavi addetti alla pastorizia, e lasciati dai padroni ignudi, i quali
ricorrevano a quel mezzo per vestirsi. Ad uno d’essi, che una volta s’era
lamentato di non avere un cencio di che coprirsi, Caio Cecilio aveva risposto
cinicamente:
- O che forse non passano viandanti per le
strade?
I pastori approfittarono del consiglio; ma
Caio Cecilio, per poter percorrere quella distanza di venticinque stadi (7),
che intercedeva tra la villa e la città, prendeva le sue precauzioni.
La villa di Caio Cecilio Pulcro, come la
sua casa, era piena di ricchezze.
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Sonzogno nel 1935
Pagine 387 - Prezzo di copertina € 22,00
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